Sagredo era un patrizio veneziano e personaggio inventato da Galileo nella sua nota opera “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”. Sagredo non era uno stupido, ed era normalmente informato sugli argomenti che trattava l'opera, dove Galileo lo contrapponeva a due scienziati esperti e talvolta in polemica tra loro: Salviati e Simplicio. A Sagredo replicava spesso Salviati, che si comportava da provetto divulgatore e chiariva con pazienza i dubbi e le ingenuità di Sagredo.
L'opera di Galileo, benché mirasse a trattare la valenza del sistema copernicano, rimane un ottimo e antico esempio di dialoghi onesti e intelligenti tra persone d'informazione e cultura diverse, in questo caso tra scienziati con teorie talvolta contrapposte e tra loro e un qualunque “mortale”, non stupido, come Sagredo.
Quando oggi avviene un confronto tra due o più persone si perde spesso il rispetto degli interlocutori, perché accadono due cose: o partecipano degli stupidi (spesso anche ignoranti), ricordando in proposito l'assunto di Isaac Asimov sull'errore: «che democrazia significhi che l'ignoranza di qualcuno valga quanto la conoscenza di un altro»; oppure si fa ricorso al “principio di autorità”, che parafrasando Paul Valery denoterebbe che: «quando non si può attaccare il ragionamento si attacca il ragionatore».
Sono due aspetti odiosi dello stesso problema.
Tuttavia, liberarsi dagli stupidi è relativamente facile: basterebbe ignorarli nei contesti sociali reali o virtuali che siano, e per altro verso evitare che prendano parte a dibattici pubblici, per esempio in TV, che avvelenerebbero soltanto. Gli stupidi hanno spesso un alto grado di scolarizzazione e rimangono un problema sociale serio, essendo il risultato di un'istruzione comunque inadeguata e di una scarsa promozione di amore per la cultura a 360 gradi. Si generano dunque questi individui - loro malgrado! - scarsamente intelligenti perché non stimolati proprio nei fondamentali processi biologici di crescita intellettuale. Questo va detto, altrimenti sembra che si stia parlando di “animali”, ed è invece dovere sociale occuparsene.
Molto più complicato è liberarsi del “principio di autorità”, che ora proverò ad affrontare in maniera più dettagliata.
Il ricorso all'autorità (e non “autorevolezza”, badate bene) si esercita quando durante il confronto tra persone intelligenti si assume acriticamente qualunque tesi del “titolato”, ossia la persona che può trattare scientemente l'argomento che si sta dibattendo. Ciò consente al “titolato” di fare dichiarazioni assiomatiche, proferire postulati e censurare qualunque domanda o richiesta di approfondimento che egli ritenga banale, superflua, e quindi non degna di essere sviluppata. Spesso ciò avviene anche in maniera arrogante o in chiave sarcastica.
In altre parole, il percorso certificato del titolato non è solo garanzia del sapere ma consente di far accettare, senza possibilità di critica, il proprio pensiero di persona esperta: l'autorità, appunto. E ciò è valido anche tra colleghi, rilevando in questo caso l'anzianità, l'esperienza il prestigio del curriculum. Per esempio, un premio Nobel per la fisica può zittire un semplice laureato in fisica, perché il primo ha appunto più riconoscimenti del secondo. E nel comune sentire questo è normale e accettato.
Tuttavia, si tratta di un ridicolo comportamento già molto criticato e - perlomeno sulla carta - ripudiato sia in ambito scientifico che umanistico. Si è visto che riduceva le possibilità di poter progredire più speditamente nella risoluzione dei grandi quesiti dell'umanità, proprio per il fatto di non considerare, o sminuire oltremodo, i contributi di scienziati minori o addirittura di persone non titolate cui la passione li aveva comunque condotti a divenire esperti al punto da poter contribuire alla pari di qualunque altro titolato, se non più. Del resto, la conoscenza non può avere confini, paletti e certificati burocratici.
Ma come dicevo, non riusciamo ancora a liberarci del tutto da questo fastidioso principio.
Vuoi perché viene data ancora voce agli stupidi, e bisogna pur metterli a tacere in qualche modo; vuoi perché l'esperto di turno è particolarmente egocentrico o viene escusso esclusivamente per perorare determinate cause. E in quest'ultimo caso la colpa è degli avvelenatori di pozzi che hanno interesse a veicolare un certo messaggio anziché un altro. Pe farvi qualche esempio: ambiente contro sostenibilità economica; nucleare contro rinnovabili; decrescita felice contro crescita infinita. E via discorrendo.
Al momento del confronto si verifica il solito copione: «Lei chi é? Cosa fa nella vita? Che studi ha fatto? Cosa ha pubblicato? Che punteggio hIndex possiede?», e così via.
E si verifica anche quando il “chicchessia” di turno, ossia il profano come il Sagredo di Galileo, non si sta arrogando del sapere (o magiari lo fa, ma perché di quel sapere non è propriamente digiuno) ma sta ragionando sul sapere stesso ponendo riflessioni, dubbi, questioni, non banali. Cioè argomenti che non rappresentano le basi di quel sapere, tantomeno delle specialità note del sapere stesso, ma questioni controverse ai quali l'esperto (di quel sapere) è chiamato a rispondere con linguaggio divulgativo, chiaro e inequivocabile.
L'imbarazzo, talvolta, impedisce all'esperto di replicare e di venir fuori dall'incomodo evocando il “principio di autorità”: «E' così perché io sono un esperto!».
Ma ribadiamo un concetto perché è facile fraintendere.
La linea tra la “fede” (fiducia) per l'esperto e il confronto tra esperto e profano è molto sottile, affinché non sfoci nel pericolo che preoccupava Asimov (vedi sopra). Mettiamo il medico con il paziente. Il primo prescrive una cura al proprio paziente pregandolo di utilizzare una certa specialità farmaceutica. Il paziente scopre che quella specialità è prodotta anche come farmaco generico a un costo molto più basso. Ora, il paziente avveduto non andrà mai a contestare al medico che la prescrizione non è adeguata, ma è legittimo che egli chieda al medico dettagliate spiegazioni sull'avergli prescritto una specialità più costosa. E qui il medico potrebbe spiegare la sua scelta basandola sulla differenza tra eccipienti e biodisponibilità del farmaco a parità di sostanza attiva.
Se invece il medico replicasse: «E' così perché io sono un medico!», il paziente farebbe bene a cambiare medico all'istante.
Gli esperti hanno anche il compito di divulgare, specie se partecipano a dibattiti pubblici. Anche nei social vige questo dovere, laddove l'esperto interviene consentendo agli altri di commentare. E dunque non deve mai essere scortese, saccente, incalzante con ipse dixit o cercando di mettere bavagli a coloro che non ritiene all'altezza dal punto di vista curriculare. Deprecabili, addirittura, coloro che irridono i loro presunti detrattori. Simili situazioni sono tollerabili solo se quella linea di “fede” è stata superata, come dicevo poco fa nell'esempio medico/paziente, perché nessuno può essere costretto a sopportare la manifesta stupidità. E in questa pandemia, per non andar troppo lontano, ne abbiamo riscontrato a quintali.
Il principio di autorità è stato bandito non solo perché sottraeva il contributo della conoscenza non certificata (e nella storia si hanno moltissimi esempi) ma, cosa ben più grave, aveva l'effetto di sottrarre a controllo razionale il pensiero profuso dal “titolato”, attività che non richiede alcuna conoscenza dell'argomento eventuale ma unicamente capacità di analizzare, criticare e chiarificare, le dichiarazioni di chi avrebbe, appunto, autorità.
Il corollario a cui dunque prestare attenzione è quello di non arrogarci del sapere che non abbiamo, pretendendo di discutere alla pari di chi ha specifica conoscenza dell'argomento; ma d'altro canto l'esperto è tenuto ad apprezzare un commento non banale, dubbioso o ben informato, e financo una critica che non attiene alla conoscenza dell'argomento in sé ma alla contraddittorietà con cui viene esposto.
Proprio come nell'opera di Galileo.
Base foto: Christine Sponchia da Pixabay
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