Con disciplina e onore

Con disciplina e onore

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La disciplina e l’onore sono qualità che vivono in diversi contesti, talvolta anche distanti da quello di cui vi voglio parlare oggi. Qui li esamineremo rispetto al rapporto che si instaura tra chi si propone come guida e chi gli concede l’onore di condurre, attraverso una fiducia che non solo non deve essere mai tradita, ma nemmeno minimamente offuscata.

Cos’è, dunque, l’onore. E’ certamente una condizione di alto valore morale riconosciuta dalla società a una persona; non si può essere onorevoli senza essere onorati. Un valore che per essere tale non può transigere e trascinare con sé alcun sentore di sospetta disonestà, colpa, infamia. Nessuna ombra sull’opinione pubblica deve scalfire chi si vuol rendere degno d’onore.

L’onore non può avere sfumature: o si è onorevoli, o non lo si è. Quando la propria reputazione viene intaccata da comportamenti ambigui o equivoci è necessario fare chiarezza, recuperare credibilità facendo ammenda degli eventuali errori, perché il proprio onore possa tornare a splendere ed essere un valore riconosciuto dagli altri.

La disciplina rappresenta invece il dominio di sé. Il controllo che permette di mantenere la propria condotta in riga con le norme sociali e di ruolo che si devono rispettare, in maniera che non prevalgono impulsi e istinti egoistici, disorganizzati, caotici, o sovversivi.

Essere disciplinati è pertanto una condizione necessaria all’onore stesso, il suo requisito più importante.

Onore e disciplina sono così stringenti che non possono essere mai sottratti per sempre. Tutti hanno diritto di riappropriarsi di queste qualità, anche se le avessero perdute nel modo peggiore. La perdita sarebbe come una condanna di perenne infamia, ed essa non può esistere per nessun essere umano se non ledendo la sua dignità nell’impedirgli la redenzione, attraverso ogni suo futuro atto positivo e virtuoso. E’ dunque una perdita sempre temporanea che sospende il giudizio fino al momento in cui ogni dubbio si possa disperdere, o le nuove azioni riconquistino quelle qualità perdute.

Nella filosofia classica, Aritsotele è il primo che ci parla in maniera compiuta dell’onore, attraverso la sua “Etica Nicomachea”. Egli considerava l’onore come il più grande dei beni esteriori. L’onore vive nella sua dimensione etica, e in tale ambito la sua esistenza è giustificata solo quando l’uomo riesce a esaltare le proprie virtù con atti di un bene concreto, ricordava Aristotele. E più avanti Tommaso d’Aquino lo ribadiva: «L'onore è un riconoscimento della virtù di colui che viene onorato: perciò soltanto la virtù è la giusta causa dell'onore».

Se mai queste “antiche” considerazioni sull’etica dell’onore dovessero risultare anacronistiche è bene prodigarsi argomentando le ragioni contrarie in maniera convincente. Trovo difficile scardinare l’etica dell’onore, tant’è che essa è stata perfino incisa in quelle che sono le più moderne considerazioni e accordi internazionali, come quelli sui diritti dell’uomo e la dignità umana. L’etica dell’onore è sublimata in essi, poiché esalta tutte le virtù umane che tendono al rispetto reciproco e all’osservanza della “regola aurea”, di cui ho già parlato diverse volte in passato: il neminem laedere. (cfr, in ultimo: "La regola d'oro non è una norma" ).

Potremmo osservare molto altro. Potremmo ad esempio apprezzare le differenze che Hobbes, nel Leviatano, si poneva quando analizzava il contesto delle virtù. Esse possono essere tanto pertinenti quanto fuori luogo, in dipendenza del periodo di pace o di guerra. Intendendo con ciò un onore dipendente da virtù opportunistiche, che esulano da quelle innate, etiche, e quindi iscritte nel DNA umano (etica giusnaturalistica).

Tutto quello che potremmo osservare ci riporterebbe, però, sempre all’Etica Nicomachea: le virtù non possono avere un contesto opportunistico perché parte intima dell’essenza umana. Sono innate e fanno parte di noi; non si acquisiscono ma si sviluppano. E se volessimo utilizzare ugualmente il termine, allora potremmo dire che le virtù sono opportunistiche per allinearsi al principale obiettivo della specie umana, dove si rende opportuno cooperare per evolvere. Diverrebbe quasi un gioco speculativo sui termini.

Attorno a tutto questo gravita l’onore. E disciplina è la sua compagna.

Anche tra le maglie dei principi inossidabili della nostra Costituzione si celano questi due termini: “disciplina e onore”, al secondo comma dell’art. 54, che conclude anche la prima parte della Carta che tratta dei “diritti e doveri dei cittadini”.

In questo principio vengono scolpiti due doveri imprescindibili:

  • Essere fedeli alla Repubblica e osservarne la Costituzione e le leggi
  • Adempiere con disciplina e onore a eventuali funzioni pubbliche

L’art. 54 appare dunque molto più esigente nei confronti dei cittadini che dovessero rivestire incarichi pubblici. Per loro non è richiesto il semplice rispetto della Costituzione e delle leggi - che riguarda tutti i normali cittadini - ma tale precetto deve essere anche seguito con disciplina e onore. E ciò risulta agevole da capire, poiché chi amministra, governa, o gestisce un qualunque potere costituzionale (legislativo, esecutivo o giudiziario), deve poter godere della massima fiducia da parte degli altri cittadini, e nessuna ombra deve pertanto scalfire chiunque venga investito di tali poteri, giacché verrebbe meno quel dovere di disciplina e onore su cui abbiamo dissertato in introduzione, e che potremmo riassumere nella parola: ”dignitari”. Essere quindi dignitari della pubblica funzione.

Ma avremmo potuto anche evitare quella disamina iniziale, perché l’art. 54, nel richiedere a tutti il rispetto della legge e poi gravarlo con maggior rigore al successivo comma, per chi investito da incarichi pubblici, sta già dicendo che quella richiesta è molto più intransigente e rigida, qualunque sia l’eventuale significato che si voglia attribuire alle parole “disciplina e onore” per qualificarsi come dignitari della propria funzione (vd: anche i verbali dell’Assemblea Costituente, relazione finale di Ruini su “disciplina e onore”: «…vecchie parole che rivivono nelle più giovani Carte (ndr, Costituzioni)…»).

In gioco c’è la fiducia dei cittadini, che può venir meno o diventare dubbiosa. E parimenti la disciplina che verrebbe altrettanto minata nel non poter più garantire il rigore che richiede la gestione di un dato potere.

Tra coloro che potrebbero veder discussa la propria condizione di dignitari ci sono senz’altro politici e governanti. Alcuni godono anche di particolari privilegi e immunità sulla cui giustezza si dibatte da tempo, poiché limitano fortemente il sindacato sulla loro qualità di dignitari. Chi può farlo non può essere certo il comune cittadino - se non per i rappresentanti che elegge e solo durante le consultazioni elettorali - ma può farlo in qualunque momento un altro potere costituzionalmente riconosciuto, che ha gli stessi doveri di onore e disciplina nel mettere in discussione l’altrui onore e disciplina. E se ne ricorrono le condizioni l'esercizio di tale potere è pure un obbligo.

Tale è il potere della magistratura, come ben si intuisce.

Il dubbio è sollevato nel momento in cui viene a prodursi un’indagine. Essa non incide ai sensi del primo comma dell’art. 54, che richiede il rispetto della legge, in quanto l’indagine non sta accertando che la legge sia stata effettivamente violata, e non lo accerterebbe nemmeno una sentenza di condanna, ma come sappiamo tale certezza giungerà solo a sentenza divenuta definitiva, perché tollerata o perché si è giunti alla condanna anche nell’ultimo grado di giudizio. Fino ad allora, è la stessa Costituzione che obbliga a dover considerare innocente la persona indagata, imputata o condannata in via non definitiva (art. 27 Cost).

Ciò non esclude che durante questo corso non si renda necessario applicare restrizioni alla persona, e questo non viola quell’art. 27 appena visto: perché si è innocenti, certo, ma pur sempre sospettati, e sono sospetti più o meno gravi per cui si possono rendere necessarie misure restrittive. E’ perfettamente ragionevole.

E’ importante tenerlo presente anche per capire meglio che la presunzione di innocenza non è una sorta di lasciapassare per poter continuare a fare quello che si vuole. I sospetti su qualcuno nascono quando questi si comporta in una maniera tale da renderli possibili; se per esempio si hanno delle frequentazioni in un ambiente poco sano o malavitoso, ecco che potrebbe anche bastare una parola intercettata, un comportamento frainteso, per far scattare dei sospetti plausibili che obbligano la magistratura a indagare, per effetto dell’obbligatorietà costituzionale dell’azione penale (art. 112).

Esistono ovviamente i casi calunniosi, che purtroppo non hanno ancora trovato un rimedio efficace. In passato hanno già coinvolto personaggi pubblici che hanno dovuto subire ingiusti calvari giudiziari a causa di testimonianze false e calunniose (vd. caso Tortora, tra i più eclatanti). Non sembra sia stato un ventre così molle da arrivare a colpire anche il potere politico; forse per la maggiore protezione di cui esso gode, tra immunità e capacità di ritorcersi contro il potere giudiziario eccessivamente solerte (come sempre, paga il più debole).

Così come la presunzione di innocenza non ostacola le misure cautelari, allo stesso modo essa non ostacola il secondo comma dell’art. 54 Cost., anzi questa è la prima considerazione di ordine morale che scatta in tutta l’opinione pubblica, la quale ha immediatamente diritto di chiedersi se quell’”onore e disciplina” non stiano venendo meno. Trattandosi di un precetto costituzionale, e non di una mera considerazione morale soggettiva, assume un valore di massimo rango poiché elevata a un’etica dell’onore oggettiva e pubblica, e quindi dovrebbe determinare il soggetto dignitario, sospettato di aver violato la legge, ad autosospendersi (se possibile) o dimettersi dalle cariche pubbliche assunte finché non sia fatta luce sui sospetti che stanno adombrando la sua onorabilità, imprescindibile per continuare a fregiarsi della fede pubblica e condurre serenamente la propria funzione.

La scelta morale diventa però soggettiva, poiché la Costituzione è solo un faro che illumina i principi giuridici su cui si fonda, ma non prevede rimedi diretti. Non esiste pertanto una legge che abbia provato a fornire una lettura applicativa del secondo comma dell’art. 54. Sicché, la valutazione di quei precetti di “onore e disciplina” diventa di libero arbitrio, e il soggetto con incarichi pubblici sospettato di violazioni di legge - più o meno gravi - può decidere in autonomia se sia il caso di autosospendersi o dimettersi. Pare insensato che un precetto costituzionale debba trovare applicazione in chi potenzialmente lo starebbe violando, lasciandogli libertà di autoassolversi anche sul piano del mero sospetto.

La nostra bellissima Costituzione è purtroppo ancora gravata da molti vuoti applicativi.

In questo caso si tratta di un vuoto che suscita anche qualche macroscopica perplessità, laddove si abbia cura di notare cosa accade quando, anziché esserci un soggetto pubblico a dover cedere al sospetto di lesa onorabilità, il soggetto diventa il comune cittadino. E magari anche un cittadino che versa in uno stato di indigenza.

L’ultimo caso ci porta alla Legge 26/2019, istitutiva del (fù) Reddito di Cittadinanza. In tale legge il legislatore ha previsto il requisito dell’onorabilità in capo al comune cittadino bisognoso del sussidio, disponendo la sospensione del beneficio a tutti quei soggetti che si fossero venuti a trovare in una condizione di custodia cautelare (ancorché condanne) in quanto sottoposti a indagini. Un giudice aveva tuttavia rimesso la questione alla Corte Costituzionale in quanto riteneva che tale requisito di onorabilità fosse troppo stringente, collidendo con altre norme costituzionali come la disparità di trattamento.

La Consulta, con sentenza n. 126 del 21/06/2021, ha giudicato la questione infondata. E' stato specificato che la sospensione del beneficio disposta dal legislatore non aveva una portata sanzionatoria o punitiva tale da poter violare altri diritti costituzionali del soggetto, ma si ancorava a quel requisito stringente di onorabilità che la legge aveva previsto e può legittimamente riservarsi, al fine di valutare il merito per concedere il sussidio.

Ecco, dunque, la perplessità che si manifesta in quella dimensione macroscopica anzidetta. Il giudice delle leggi non considera ostativo per il legislatore prevedere requisiti di onorabilità nei confronti del comune cittadino - e possiamo senz’altro concordare su questo - ma d’altro canto a noi comuni cittadini monta la collera e ci preme dover biasimare il legislatore che finora si è ben guardato dall’applicare a sé stesso il medesimo principio, peraltro già scolpito nella legge delle leggi, ossia la Costituzione.

Si fa l’esatto contrario di quanto costituzionalmente previsto, per rendere l’idea in maniera spicciola.

Tutto questo ci porta a fare una veloce riflessione anche sul caso di attualità che riguarda Giovanni Toti, governatore della regione Liguria che si trova agli arresti domiciliari da qualche mese, e pochi giorni fa è stato ulteriormente raggiunto dalla richiesta di nuove misure cautelari, in funzione del progredire delle ipotesi di reato emerse nel corso delle indagini a cui si trova sottoposto.

Nei mesi passati sono più volte intervenuto a difesa di Toti sottolineando la presunzione di innocenza che tutti dovremmo osservare. Ho anche difeso la sua scelta di non dimettersi, perché sarebbe stato prematuro nell’imminenza di ricorsi e difese che avrebbero certamente approntato i suoi legali, come poi è stato fatto. Durante questo periodo iniziale, a chi invocava “dimissioni subito” facevo presente che non aveva ancora senso invocare l’art. 54 Cost., anche a tale precetto è necessario applicare criteri di ragionevolezza e, al più, ci si poteva appellare alla famosa “questione morale” che ebbe a sollevare Enrico Berlinguer.

Sono tremendamente distante da politici come Toti, e non apprezzo amministratori del suo calibro, ma prima di tutto occorre essere intellettualmente onesti. E con la stessa onestà oggi, viste le conferme giudiziarie e i sospetti che anziché diradarsi si sommano, da quella questione morale ci si deve per forza spostare ai canoni di onorabilità che impone la Costituzione.

Toti, come visto, non ha alcun obbligo di dimettersi nemmeno a questo stadio. Quell’”onore e disciplina” previsti dal suo mandato non trovano rimedi applicativi nella legge, quindi la decisione è affidata alla sua morale soggettiva (la stessa che denunciava Berlinguer). Tale morale non può però ancorarsi all’infinito alla presunzione di innocenza, come anche preteso da chi lo sostiene e difende. Se è vero quanto abbiamo fin qui argomentato sulla differenza corrente tra la presunzione di innocenza e i requisiti di onorabilità, e visti anche i sospetti che insistono dopo mesi, si denota che la morale di Toti non coincide più con l’etica dell’onore costituzionalmente prevista. In questo modo è leso anche il principio di disciplina atto a garantire che le proprie funzioni siano svolte in aderenza alla esigenze della prassi governativa, perché trovandosi ad oltranza ancora agli arresti domiciliari è naturale che il delicato incarico di governare una regione non possa essere svolto in maniera puntuale e appropriata, ancorché con quell’onorabilità già messa in discussione dalle indagini in corso.

È diventata molto più che una “questione morale”.

Bisogna farsi illuminare sempre dai valori costituzionali, questi non mentono mai. La loro elaborazione è stata talmente lungimirante e previdente da rendere possibile i nostri ragionamenti a tutela di questa delicata epoca di sbando. Oggi sempre più spesso si cerca di far passare l’alleggerimento delle responsabilità di chi riveste incarichi pubblici con la necessità di poter amministrare e governare serenamente, senza quella paura di essere troppo osservati o addirittura inquisiti. Sotto tale segno nasce anche l’abrogazione del reato di abuso di ufficio, ad esempio, edificato sul pretesto di frenare l’attività amministrativa perché susciterebbe timori nel firmare gli atti. E così ogni altro depotenziamento della giustizia che si sta adottando di questi “brutti” tempi.

Si può giustificare quell’ingegnere che dovendo progettare un ponte pretende che siano abrogate leggi e depotenziati indagini che avrebbero lo scopo di responsabilizzare a far bene il proprio lavoro?

E’ proprio questo che vuole la Costituzione: attenzione, capacità, conoscenza, rigore, massima responsabilità di chi si propone per amministrare e governare, nessuno obbliga chi non può o non vuole farlo. Ma se si vuole farlo con irresponsabilità e sicurezza d’impunità allora sia saggio dubitare di costoro! Con tutta probabilità, vogliono essere liberi di arricchirsi alle spalle dei cittadini senza timore delle conseguenze. La Costituzione l’aveva previsto: con disciplina e onore!

Nell’immagine di copertina ho scelto Piero Calamandrei per molteplici ragioni; tra queste quella di essere stato tra i più autorevoli e incisivi costituzionalisti, già padre costituente, dello Stato di diritto e dell’etica giudiziaria. La citazione in foto è estratta da un suo discorso pronunciato il 26 gennaio 1955, per inaugurare un ciclo di conferenze organizzato da un gruppo di studenti universitari.

Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.

(Piero Calamandrei)

NOTA DI AGGIORNAMENTO DEL 26/07/2024

Per quando riguarda l'ultima parte di questo articolo, dove si provava a fornire una lettura circa la mancata decisione di Toti di dimettersi dalla carica di Presidente della Regione Liguria, si da atto che nella data indicata in questa nota di aggiornamento Giovanni Toti ha deciso di dimettersi. Ciò non solo sana la "questione morale", come elemento squisitamente politico, ma onora l'art. 54 della Costituzione di cui abbiamo sopra discusso, senza intaccare la presunzione d'innocenza. Questo è il comportamento corretto che dovrebbe assumere ciascun politico gravato da misure restrittive e sospetti resistenti alle difese legali respinte.

Base foto: Piero Calamandrei, 1946 (PD: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20728773)

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P. Giovanni Vullo

In questa navicella spaziale, vado in giro a fare scoperte. Provo a capire come funziona. E ve lo racconto.