Sono consapevole che il titolo scelto per quest’articolo possa turbare. Ma ho fiducia nel vostro desiderio di capire cosa si cela dietro l’apparente provocazione.
E vi dico anche che non è una provocazione. Penso sul serio che le punizioni non abbiano nessun senso. Dal classico mettere dietro la lavagna l’alunno ribelle, alla galera per il criminale. Nulla di ciò ha senso. E prima di farvi arrabbiare ulteriormente (immagino vogliate già “punirmi”…) è meglio che io cerchi un primo conforto nelle grandi menti del passato. Un passato ancora più antico dei 2.500 anni trascorsi dalla sintesi di Pitagora.
Educa i bambini e non sarà necessario punire gli uomini
(Pitagora, V secolo a.C.)
Torneremo su questa frase di pedagogia pitagorica. Ma intanto siete più sereni?
Sento ancora qualcuno che sta pensando che non tutti i bambini si possono educare. Per quanto si faccia bene il proprio mestiere di genitore, educatore, o quello che sia, ci saranno sempre devianze che è necessario punire. Se lo pensate avrò difficoltà nel farvi seguire quello su cui voglio riflettere oggi, e mi permetto allora di indicarvi alcune considerazioni propedeutiche che feci di recente nell’articolo “Bambini”. Vi prego di leggerle prima di andare avanti.
L’argomento mi è molto caro, perché è tra quelli che incidono in maniera pesante sul destino del mondo: meno persone ci saranno da “punire”, e maggiore sarà anche il livello di sicurezza, benessere e progresso che potremmo conquistare. Viceversa, non riusciremmo più a stare dietro al disordine che avanza.
Il disordine dobbiamo inquadrarlo nel dibattito sociale, educativo e politico che continua a sbilanciarsi troppo verso soluzioni comportamentistiche, che vedono il condizionamento della persona come sistema migliore per ottenere rispetto e disciplina. Se si fa bene si ottiene un premio, altrimenti arriva la punizione.
Esiste un altro antico e oscuro motto, vecchio come il male, che tutti fanno finta di odiare ma coltivano in seno a quel comportamentismo:
Colpirne uno per educarne cento
(Libro degli Han, II secolo a.C.)
Tante volte ho scritto che questo sistema può andar bene per gli animali, ma non per le persone (cfr: B.F. Skinner). E tante volte ho indicato anche il pensiero scientifico di grandi pedagogisti e intellettuali illuministi, come Cesare Beccaria che ebbe la capacità di esplorare genesi e risultati delle punizioni attraverso la sua famosa opera “Dei delitti e delle pene”.
L’esercizio letterario di Beccaria è tutt’oggi punto di riferimento nel diritto penale moderno. In esso riscontriamo due principi fondamentali: le pene servono a “contenere” i delitti e si devono evitare punizioni tormentose. Beccaria osservava anche che le pene dovrebbero essere esemplari per evitare che altre persone commettano delitti, perché non sarebbe il terrore a suscitare tale esempio, tanto e vero che i delitti puniti con la pena di morte non sono mai diminuiti.
La pena non è dunque deterrente efficace.
Esisteva anche un problema tutt’oggi irrisolto nell’identificare un criterio oggettivo per determinare la pena proporzionale a ciascun delitto, tale che chi avesse intenzione di commettere quel tipo di delitto ne potesse essere ragionevolmente scoraggiato.
L’evoluzione di queste riflessioni ci hanno portato unicamente a stabilire che la pena non può essere vista come punizione fine a sé stessa, ed essendo anche un pessimo deterrente deve avere quantomeno una finalità di redenzione e recupero del soggetto. Questo ormai viene iscritto nel diritto penale internazionale di tutti i paesi evoluti, ritrovandosi anche all’art. 27, comma 3, della nostra Costituzione. Ma solo molto più tardi, con la legge n. 354 del 1975 (legge sull’ordinamento penitenziario) si è data in Italia piena applicazione a questo principio costituzionale.
Ma è nato un altro problema.
All’umanizzazione della punizione non consegue nessun sistema realmente valido per dar luogo all’effettivo recupero del soggetto che sbaglia. Tantomeno si avrà ragionevole certezza, al termine della pena, che il soggetto abbia realmente elaborato e compreso i suoi errori. Perché solo così sarebbe possibile reinserirlo con fiducia nel normale contesto sociale.
Il fallimento dei metodi di correzione determina un tasso di recidiva che si aggira attorno al 70%. Questo significa che 7 persone su 10 tornano a comportarsi male dopo aver scontato la loro punizione. Nel 30% dei “recuperati” ci sono anche bravissime persone che scontano pene alternative o presso i servizi sociali, dopo aver avuto la sola sfortuna di essere incappate in situazioni casuali. Quindi i numeri del fallimento sarebbero ancora più eclatanti dopo aver sfoltito i casi che non hanno vera matrice delinquenziale e per tendenza dell’indole malamente forgiata.
(cfr: minidossier Openpolis,
http://minidossier.openpolis.it/2016/09/dentro_o_fuori.pdf)
Cosa si può fare?
Prendiamo atto che la punizione generalmente non funziona, e finisce per essere solo vendetta. Iniziamo anche cambiando sostantivo: non più punizione o pena, ma contenimento. Non stiamo punendo per un fine utile, ma stiamo contenendo chi ha commesso quello sbaglio, affinché la sua limitazione o privazione di libertà, o anche il danno economico (le multe, le ammende, le sanzioni amministrative), impediscano intanto che lo sbaglio venga nuovamente commesso nel breve periodo, e ci diano modo di capire come recuperare il soggetto nonché del tempo che ci vorrà. Che è quello che già proviamo a fare senza successo.
Non c’è successo perché manca la scienza del problema!
Quanto tempo ci vorrà per recuperare il soggetto specifico nel mentre si contiene la sua libertà? Oppure quale sanzione pecuniaria potrà essere utile per il soggetto specifico affinché comprenda il suo errore? Ed è importante notare l’enfasi posta su “soggetto specifico”, perché ogni individuo è storia a sé. Essendo persone con caratteri e vissuto del tutto diversi gli uni dagli altri, non ha alcun senso una limitazione/privazione di libertà o una multa calcolate in maniera ragionieristica e sostanzialmente identica per tutti.
Ecco la scienza che ci manca e che non abbiamo mai trovato. La psicologia, la psicoterapia e perfino le neuroscienze, ci forniscono solo strumenti di recupero molto approssimativi e basati sulla ferrea volontà e collaborazione del soggetto stesso.
Ed è colpa nostra. Essendo molto bravi a complicare le cose, e soprattutto a non voler ragionare sulla radice dei problemi che si presentano sempre con il loro evidente nesso di causalità (causa/effetto), ricerchiamo la soluzione scientifica sull’effetto del problema anziché sulla causa!
Quanto risulterà ovvia, dopo questa “articolata” riflessione, tornare a ribadire quella citazione iniziale di illuminata filosofia pitagorica: «Educa i bambini e non sarà necessario punire gli uomini». Questo significherebbe ragionare sulla causa, e trovare con facilità la scienza che ci permette di risolvere il problema alla radice: l’educazione! Dunque la banalità del prevenire in luogo del curare.
Partire dai bambini, dalla loro nascita, è la cosa più naturale e semplice che si possa fare. I bambini non nascono né buoni né cattivi, possono diventare dei Gandhi, onesti, miti, persone equilibrate, oppure ladri, assassini, persone mentalmente disturbate. Sarà il loro vissuto, la famiglia, la sfera sociale, a forgiarli, in questo loro crogiuolo di stimoli educativi o diseducativi.
La soluzione è dunque semplicissima, ma la sua applicazione è quasi impossibile. Il mondo odierno ha serissime difficoltà nell’approntare terreno e strumenti idonei a favorire quell’educazione che formi solo individui onesti ed equilibrati. Nel mondo odierno, i bambini sono soggetti non dissimili dagli animali, ai quali applichiamo il comportamentismo, poi li sproniamo con il merito, ma in un realtà di adulti dove il merito conta poco, e infine li stimoliamo alla competizione impostando la loro mente sul potere arrivare a tutto solo con volontà e spirito di sacrificio.
Ma di principi etici, di cooperazione, amore, solidarietà, affettività, altruismo, ricerca e sviluppo delle proprie potenzialità, indipendenti dalla competizione, di tutto questo non se ne parla affatto. E laddove se ne parla è comunque troppo poco e si pone in contrasto con gli imperativi di formazione visti prima.
Il mondo di oggi, insomma, a causa del tipo di società tossica che abbiamo sviluppato, eroga principi pedagogici sbagliati da tutti i distretti educativi: famiglia, scuola, gruppi sociali, politica. Questo nel migliore dei casi; mentre nel peggiore abbiamo i margini sociali, che non essendo assistiti in modo adeguato dal welfare di Stato diventano le migliori culle per crescere soggetti che da adulti (se non già prima) assumeranno comportamenti antisociali.
E noi, con evidente assurdità e paradosso, saremo poi costretti a punire - pardon: contenere! - questi soggetti che noi stessi abbiamo malamente formato o fatto formare dal ghetto. E’ sempre stato così dall’alba dei tempi, e non siamo ancora stati capaci di fare il salto evolutivo per venir fuori da questo circolo vizioso: concorrere ai crimini che poi si puniscono!
Qualcuno penserà che i soggetti antisociali siano pur sempre una minoranza, perché abbiamo comunque la capacità di superare errori e bias negativi di educazione, e soprattutto esempi sbagliati, che tutti riceviamo. In parte è vero; possediamo livelli di coscienza astrattiva tali da recuperare e far prevalere i principi etici naturalistici, opponendoci alle derive immorali. Ma questo limita a malapena i delitti gravi, ed è poco utile nel sovrintendere e vincere i processi egoistici della quotidianità. Questi altri sono di entità e numero spropositati, e racchiudono infinità di mali “minori” ugualmente trattati con “punizioni sociali” non codificate, ma di grande impatto emotivo e psicologico.
Dobbiamo avere il coraggio di fare quel piccolo salto evolutivo. Sarebbe davvero giunto il momento.
Base foto: parte dell’affresco “Punizione dei ribelli”, Sandro Botticelli, 1480/82, Cappella Sistina
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