Le ragioni della condivisione

Le ragioni della condivisione

In famiglia talvolta accade di avere idee diverse; succede tra compagni di vita e magari con figli già grandi, che se ci sono partecipano anche loro a decisioni importanti che riguardano tutta la famiglia.

E' così anche in un gruppo, un condominio, un quartiere, e così via.

Una volta c’era la famiglia patriarcale, dove il potere era accentrato sul maschio "capofamiglia" che alla fine prendeva la sua inappellabile decisione. Una forma di autorità che residua in molti angoli della nostra società e subculture di margine; ed è ancora la normalità in molti altri Stati e culture diverse. Per noi occidentali è diventato incomprensibile. Sappiamo che il patriarcato è un retaggio del passato eticamente immorale e perdente. Per questo abbiamo cambiato idea.

Riteniamo che in un gruppo non possa esistere una singola figura che assoggetti alle proprie decisioni tutti i membri che ne fanno parte. Viene ancora accettato presso organi militareschi e a catena di comando civile, come può essere un’azienda del mondo capitalista. Ma non in una forma associativa di persone che liberamente decidono di condividere un legame per trarne un rispettivo beneficio.

Esattamente come nella famiglia moderna: condivisione di sentimenti, di progetti di vita, di tempo.

Una volta nel quartiere dove abitavo le cose precipitarono. Molti problemi civici erano venuti al pettine e nel frattempo incalzava un’improvvisa e delicata questione sociale. Ci furono infine dei tafferugli che un giorno mi convinsero a uscire fuori dal mio “bunker” e provare a dare una mano. Fondai un comitato di quartiere e lo guidai per diversi anni.

In quell’avventura seguii le regole della condivisione, e nello statuto imposi alla carica del presidente - che assunsi - tutta una serie di limitazioni e vincoli, assoggettandolo parecchio alle decisioni di un calibrato consiglio di quartiere che discuteva e prendeva le decisioni. E la condivisione avvenne su quasi tutti i punti, che fui onorato di poter poi guidare e risolvere.

Al successo seguì il declino. Alcuni iniziarono a pensare di poter gestire i propri affari con un appoggio autorevole, altri semplicemente soddisfatti di quel poco o molto ottenuto iniziarono a disinteressarsi. Qualcuno mi pregò di modificare lo statuto per ottenere maggiori poteri e condurre le altre importanti battaglie necessarie per quei luoghi. Ma non lo feci, e non volli nemmeno continuare a guidare quel consesso, il quale alla fine si sciolse definitivamente. Perché nulla va forzato, e le cose devono trovare il loro tempo per sedimentare.

E’ una storia come tante.

Tuttavia dobbiamo coglierne il lato positivo. In quell’esperienza abbiamo avuto della gente che è riuscita a stare insieme, condividere obiettivi, decidere e dare il mandato esecutivo di volta in volta stabilito. Quindi questa è una cosa possibile, e certamente garantisce meglio di ogni altra l’adattamento al successo e all’insuccesso delle decisioni prese, perché non c’è il presidente comandante o il patriarca familiare che accontenta o scontenta a piacimento, suscitando sentimenti intensi e gravi, ma una più ampia assemblea che condivide quelle scelte, suscitando critiche costruttive e mitezza.

A questa riflessione, e al suo accertamento pratico, siamo addivenuti da tempo. Lo abbiamo fatto come cultura in cammino, che avanza verso il progresso di una società che riesce a dialogare, confrontarsi, essere in disaccordo ma trovare punti di coesione e, infine, prendere decisioni. E bisogna anche accettare che questo non funziona sempre, e anzi dobbiamo ancora imparare come organizzarci e rapportarci al meglio. Ma rimane quella garanzia che non può fornire il “Re”, per quanto si possa ritenere illuminato.

E casi ce ne sono stati anche da quelle parti.

Mi piace ricordare spesso un grande politico contemporaneo, il presidente Pepe Mujica, di cui scrissi un breve articolo circa un annetto fa: “La buona politica” 1. Mujica, in parte italiano, è stato un illuminato presidente dell’Uruguay e un simbolo mondiale di capacità e umiltà; i benefici che ha apportato al suo paese sono strabilianti. L’Uruguay è una repubblica presidenzialista che accentra i poteri sul presidente, ovviamente non ha sempre avuto presidenti così illuminati. Ma prendiamo anche il Brasile, che su questo punto è un esempio ancora più eclatante.

Lula è stato uno dei presidenti del Brasile più operoso e abbastanza amato (ma anche contestato), e oggi è di nuovo alla guida del suo paese dopo la molto meno brillante parentesi di Bolsonaro. Ma è difficile dire chi sia stato migliore o peggiore, basti pensare che con il presidenzialismo il Brasile è arrivato alla “sesta versione” di repubblica, con una costituzione pluri riformata e pause di dittature militari.

Tutta l’America latina è pressoché affetta da un presidenzialismo che la porta a essere spesso definita “America dei poveri” (e non dovrebbe affatto!). Ma nella sostanza, l’accentramento di potere su una sola persona, o poche persone, rappresenta una costante perdente in qualunque altra parte del globo si voglia osservare.

Gli USA sono l’unica eccezione apprezzabile, e sebbene abbiano un sistema e una cultura molto stabile che vive la sua forma di repubblica federale da quasi due secoli e mezzo, non è difficile trovare presidenti che l’hanno guidata in maniera molto pericolosa. Ultimamente il declino di candidature autorevoli ha prodotto personaggi come Trump e Biden. Il sistema di controllo è comunque rigido e può contare su istituti come il cd. “impeachment” tipico del sistema giuridico “common law”, e ha sempre permesso ai presidenti americani di rigare abbastanza dritto. Casi ed eccezioni li conosciamo bene: Trump, il più recente; Andrew Johnson, il più antico, nel 1868.

Anche gli USA, dunque, comprendono molto bene i disastri che potrebbero accadere con l’accentramento del potere, e per questo si sono organizzati attraverso severi sistemi di controllo e intervento immediato.

Nel resto del mondo cd. “occidentale”, Europa compresa, hanno preso piede le repubbliche parlamentari, in qualche caso le monarchie parlamentari in cui il monarca è una mera figura cerimoniale o sostituisce il presidente della repubblica. Nella foto di copertina potete ammirare il “Palazzo dei Normanni” che si trova a Palermo, nella mia Sicilia. Oltre a essere la più antica residenza reale d’Europa, è stata anche sede del primo parlamento moderno della storia, pensate che il suo insediamento risale al 1130, e avvenne con la seduta di proclamazione del Regno di Sicilia. Oggi è sede dell’assemblea del governo regionale siciliano.

Negli assetti parlamentari trovano principalmente posto le democrazie rappresentative, in cui il governo è solitamente formato tra i partiti che si aggregano tra loro (fin dall’inizio in fase elettorale), scegliendo poi il primo ministro (capo del governo) e proponendosi in parlamento per ottenere la fiducia. E come l’hanno ottenuta, la fiducia può essere revocata in qualunque momento.

Il sistema parlamentare è quindi come il condominio, la famiglia, il comitato di quartiere di cui narravo aneddoti, l’assemblea di una qualunque associazione, e così via. E si sceglie questo sistema perché è apparso naturale: riduce al minimo gli errori del singolo, per quanto saggio egli possa essere o apparire - basta ripercorrere i drammatici eventi storici del passato - e segue il principio naturale dell’essere umano che è la cooperazione. Cooperare per condividere le migliori soluzioni possibili per tutti.

Il rovescio della medaglia è che tale cooperazione spesso non avviene. L’aggregazione diventa un momento per gestire i propri affari, e non quelli dei propri consociati. Interviene così quel meccanismo di fiducia/sfiducia che è appunto il sistema di controllo parlamentare dell’attività di governo, mettendo tale attività in una perenne condizione di esame da parte dei suoi stessi membri (eletti dal popolo).

Spesso a ciò si associa il termine “instabilità”, ma dimenticando che un governo non deve essere stabile in sé ma stabile nel lavorare per il bene del paese. Se questo a un certo punto non avviene più e alcuni suoi membri iniziano a dissociarsi, è un bene che quel governo arresti il suo mandato. Che ciò avvenga spesso in maniera pretestuosa, ossia perché alcuni membri di quel governo tradiscono la loro moralità ambendo ai propri esclusivi interessi, non può essere ragione per cambiare sistema. La soluzione non è tornare a un passato che ci ha già lacerato, facendo nuovi presidenzialismi o premierati che nel resto del mondo denotano anche oggi un fallimento totale o parziale, e questo solo per resistere al dissenso e dare “stabilità” a un governo contestato internamente. La vera e unica soluzione è quella di eleggere politici onesti, corretti, preparati, moralmente irreprensibili. E se non ce ne fossero, sarebbe ancor peggio avallare l’accentramento di potere su elementi che in partenza non si ritengono completamente degni di fiducia.

Quando un governo “cade” è sempre un bene (male minore) per il paese, perché significa che non stava lavorando bene o che i suoi sostenitori (coalizione di maggioranza) si sono mostrati incapaci di mantenersi coesi nelle decisioni.

Siamo, come già detto, una cultura in cammino. Non possiamo pensare di poterci adeguare alle ragioni della condivisione se quella nostra natura innata di cooperazione non l’abbiamo ancora adeguatamente sviluppata, facendola prevalere. Dobbiamo imparare. Sbaglieremo ancora tante volte, ma è così che alla fine si inquadra la strada per comprendere definitivamente il valore imprescindibile della condivisione. E’ inevitabile!

Gli errori ci toccano solo per capire questo; per arrivare a far funzionare la scelta giusta che verosimilmente abbiamo già fatto nell’essere “parlamento” in ogni espressione della nostra vita, cioè consesso di persone che devono parlare e mettersi d’accordo. Non deve toccarci il rivivere vecchi errori e percorrere sentieri perdenti, aggrappandoci alle labbra di chi si vuol candidare a essere il nuovo re o la nuova regina.

E’ chiaro che in queste ultime battute io mi stia riferendo all’ultima trovata del governo Meloni, che intenderebbe modificare la Costituzione per introdurre l’elezione diretta del premier (presidente del consiglio), conferendogli dei superpoteri che metterebbero questa figura al riparo dalle sfiducie parlamentari della sua stessa maggioranza, perché le opposizioni, da sole, non hanno mai avuto alcun potere di sfiduciare o “ribaltare” nessun governo in carica e in armonia. Si vuole impedire qualunque intervento anche al Presidente della Repubblica, limitandone gli attuali poteri. E’ una riforma che l’odierna maggioranza al governo non ha molte speranze di spuntare, perché per modificare queste norme “protette” della Costituzione occorrono almeno i 2/3 dei votanti presso Camera e Senato. E questi numeri mancano largamente.

Rimane certamente uno scenario inquietante; già il solo proporre un arretramento culturale così importante e al contempo approssimativo.

Mi sono già dilungato troppo. Avrei voluto parlarvi anche di come dovrebbero funzionare i rapporti tra maggioranza di governo e forze politiche di minoranza (quelle che perdono le elezioni e usiamo chiamare opposizioni). Ve ne vorrei parlare a rigore di quanto previsto nella nostra Costituzione, e spero di poterlo fare presto, magari già nel prossimo articolo. Potrebbe essere un altro momento culturale interessante per cogliere una delle tante misure che hanno ispirato e guidato i nostri padri e madri costituzionalisti.

Base foto: Palazzo dei Normanni, Palermo - Sede della seduta del 1130, primo Parlamento moderno della storia


  1. "La buona politica", disponibile su fai.infomrazione.it cliccando sul link. Il contenuto verrà presto archiviato anche qui. 

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P. Giovanni Vullo

In questa navicella spaziale, vado in giro a fare scoperte. Provo a capire come funziona. E ve lo racconto.