Mi piace pensare che la psiche possa essere governata dall’amore. Se questo accade allora tutto è possibile: l’essere umano ha davvero il completo controllo di se stesso. Lo voglio rappresentare con due omonimi e il loro atto di ricongiungimento nella splendida scultura di Antonio Canova: Amore (Cupido) che risveglia con un bacio la sua amata Psiche.
Ma poi torniamo alla realtà, dove vi ripeterò una cosa: «Nessuno può pensare diversamente da come si comporta: mentirebbe!». Era l’osservazione che facevo in “Convinzioni vincenti”, un articolo dell’ottobre scorso. Si trattava di una breve disamina sui meccanismi che generano e governano le nostre convinzioni, fondandola anche su alcuni postulati di Freud e Jung.
Citavo marginalmente i due eminenti padri della psicoanalisi compiendo un ragionamento che in generale può stridere con un altro principio della psicologia generale, in particolare quello di Freud: il trauma psichico, ossia il rapporto causa/effetto dovuto a un qualunque evento negativo vissuto da un soggetto e destinato a influenzarlo per sempre, potendo al più convivere e controllare quel trauma ma mai rimuoverlo. In generale Freud era convinto che le persone fossero figlie del loro passato ed era talvolta impossibile cambiarle anche attraverso la psicoterapia: rimarrebbero tali per sempre!
Jung, tra inconscio individuale e inconscio collettivo (rectius: innato) in particolare, prendeva una posizione simile (solo per gli effetti) a quella di Freud attraverso la sua famosa teoria sugli archetipi. Benché le sue teorie fossero meno rigide e ancorate alla filosofia sperimentale, metodo d’indagine che fa sposare la filosofia classica con la scienza cognitiva, anche secondo Jung è difficile sfuggire ai propri archetipi che determinano la personalità.
Mi discostavo, appunto, da entrambe le posizioni come si scorgerà attraverso quelle mie riflessioni, usando anche una citazione a Carl Rogers (altro eminente psicologo) che facevo in punto di conclusione: «Esiste un curioso paradosso: quando mi accetto così come sono, allora posso cambiare».
Era un indizio. Con quell’articolo volevo soprattutto aprire al vero “terzo incomodo”. Un altro gigante della psicologia contemporanea che ha prediletto il dialogo diretto ai trattati scritti; un po’ come fece Socrate, di cui non avremmo avuto alcuna cognizione se Platone non avesse deciso di riportarne il pensiero e le cronache della vita. E’ un paragone un po’ ardito, ma solo per motivare un personaggio che appare davvero poco prolifico in letteratura, tuttavia estremamente produttivo in insegnamenti e “discepoli” che ne hanno riportato il pensiero, anche attraverso le sue conferenze e trascrizioni delle lezioni. Potremmo dire: merce rara di estremo interesse.
Sto parlando di Alfred Adler.
Potrei spiegarvi tutte le teorie adleriane attraverso un unico detto del leggendario Li Ching-Yun: «All’inizio le montagne erano montagne e le acque erano acque (ndr: psicologia innata). Quando mi avvicinai alla sapienza Zen le montagne non erano più montagne e le acque non erano più acque (ndr: psicologia di Freud e Jung). Ma quando raggiunsi l’essenza dello Zen: le montagne furono di nuovo montagne e le acque di nuovo acque (ndr: psicologia di Adler)».
Adler non fa altro che parlarci di una psicologia intuitiva e connaturata all’uomo. Un punto d’arrivo che coincide con quello di partenza, facendo una serie di semplici constatazioni. Per esempio, egli rileva come l’origine di tutti i problemi siano i rapporti interpersonali, che implicano il giudizio degli altri. Se l’uomo, paradossalmente, potesse vivere solo nell’universo e senza cognizione di un proprio eventuale simile, sarebbe completamente libero di vivere, sperimentare e cambiare come gli pare e senza interferenze. Queste ultime esistono perché esistono i suoi simili, con i quali egli si deve necessariamente rapportare: per amore, amicizia e lavoro.
Sono, vi assicuro, concetti (rectius: constatazioni) alquanto disarmanti. Al contrario dei postulati di Freud e Jung, che potremmo collocare nell’universo di tutti quelli che studiano e sperimentano ma senza ancora aver raggiunto la meta, Adler sembra averla raggiunta nella semplicità delle cose.
Vengono smantellati gli assunti di Freud sulla psicologia del trauma e sull’influenza del passato nel comportamento futuro dell’individuo, come anche gli archetipi di Jung, poiché Adler ritiene che un individuo possa cambiare anche radicalmente quando e come gli pare. E’ un approccio teleologico secondo il quale ciascun individuo inventa emozioni e mente a se stesso per evitare un qualunque problema che dipende sempre dai rapporti interpersonali.
Non è dunque l’influenza di un trauma o del vissuto a imporre il comportamento, ma è l’uso che facciamo di queste esperienze a far conseguire il comportamento stesso. Per esempio, chi si credesse brutto e avesse anche collezionato rifiuti nell’approccio romantico, potrebbe usare tali pretesti per far conseguire la paura di riprovarci ed evitare così di rimanerci male. Quindi si usano delle esperienze emotive di un qualunque genere per conseguire l’obiettivo prefissato (nel caso: non soffrire per altri rifiuti). Gli eventi in sé non avrebbero alcuna rilevanza e potere, ma è la l’individuo a volerli usarli per conferire loro un significato traumatico, o comunque vincolante, per evitare altre situazioni/rapporti spiacevoli.
Questo non è necessariamente un male se si è coscienti di stare usando un’esperienza per conseguirne un bene. Diventa un male solo quando non si è coscienti di questo e si usa l’esperienza come elemento determinante e limitante, soffrendo per tale condizione. Un regime di doppia sofferenza: da un lato evitare di ritentare un obiettivo che potrebbe provocare altri disagi (paura, che inventa i limiti), e dall’altro soffrire per non poter raggiungere quell’obiettivo (a causa dei limiti inventati).
«Vorrei tanto fare quella cosa, ma non sarò mai capace perché ho già fallito!».
Naturalmente è possibile avere dei limiti reali. Magari è una cosa per cui è necessario un certo tipo di talento innato. Ma non parliamo di questo.
Cambiare è dunque possibile!
Ma per niente facile. Anzi, in alcuni casi è davvero molto difficile. Le convinzioni, i limiti, le scuse, che ciascuno crea nella propria mente facendo prevalere esperienze e credenze soggettive, e talvolta anche indirettamente acquisite, si radicano in maniera davvero ostinata. E tutto questo fa parte della “menzogna vitale” – cosi la chiama Adler – che evita all’individuo di mettersi in gioco per non rischiare. Essenzialmente: mancanza di coraggio per cambiare. Il proprio disagio può sfociare anche come arma violenta sugli altri, vivendo un presente intriso di compensazioni e sopportazioni. Una miscela terribile che non ostacola solo il cambiamento ma è responsabile dei tremendi fatti di cronaca che ammorbano la quotidianità, come parlavo anche in “Stili di vita e violenze esplosive”.
E’ anche così che si getta la spugna sulla cosa pubblica. Ci diciamo che: la politica è corrotta, la società è incivile, le persone sono ignoranti, il paese fa schifo, nulla potrà mai cambiare. Ma sono tutte scuse belle e buone che offrono un qualche rifugio ove giustificare la propria inazione da mancanza di volontà e coraggio.
Il cambiare – anche per cambiare ciò che ci circonda – è dunque un lavoro esclusivamente individuale. Nessuno possiede un sistema o una cura per poter cambiare qualcun altro, men che meno con le sole parole. E’ la persona a doversi determinare, con volontà e coraggio, partendo dall’accettare l’uso e i significati bloccanti che conferisce alle proprie esperienze. Anche con l’aiuto degli altri, ma con la propria esclusiva volontà e coraggio!
Voglio chiudere citando nuovamente Rogers: «Esiste un curioso paradosso: quando mi accetto così come sono, allora posso cambiare».
Base foto: “Amore e Psiche”, Canova, 1787-93 – Foto: Jean-Pol GRANDMONT (licenza CC BY 4.0)
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