Parlavo con una bravissima studentessa di medicina, a me molto cara. Mi diceva quanto duro e difficile fosse preparare bene un esame e soddisfare come si deve i suoi docenti, giustamente esigenti.
E come potrebbe essere diverso, vista la delicatezza della professione medica.
Eppure, tra i medici ne esistono di bravi, mediocri e pessimi. Non importa in quale glorioso ateneo si siano forgiati, ma le approssimazioni, gli errori, la disaffezione, il vil denaro, e perfino la carenza formativa (che più ci interessa) fanno trovare spazio a tutte le anime. Non dovrebbe essere così, o perlomeno dovremmo avere garanzia che siano bias ridotti al minimo; invece è proprio così, e quando abbiamo un problema di salute un po’ delicato corriamo subito a cercare il medico più bravo, quello più esperto e rinomato. Non ci fidiamo facilmente.
Alla mia studentessa ho detto questo. Lei è rimasta un attimo impietrita; subito dopo mi ha chiesto: «Mi stai dicendo che anche se io mi stresso come una matta per preparare al meglio un esame, alla fine potrei essere lo stesso un cattivo medico?». Beh sì, è proprio così. Ma è vero anche il contrario: potresti avere grandi difficoltà a rispettare i tempi e il tipo di preparazione che ti chiedono i tuoi valutatori; potresti anche abbandonare per il troppo stress che tutto ciò ti provoca, e alla fine avremmo perso un potenziale bravissimo medico.
Ora mi direte: ma se si studia con profitto, come si può essere pessimi professionisti; e se non si riesce a dimostrare questo profitto, come si potrebbero perdere potenziali eccellenze?
Perché abbiamo un considerevole problema che va oltre la singola disciplina della medicina e coinvolge ogni ambito del sapere scientifico e umanistico. Non abbiamo un metodo di valutazione scientifico e davvero affidabile per certificare il sapere, la preparazione, la passione, che ciascun studente possiede nel seguire il percorso che ha scelto. Si brancola un po’ nel buio senza un’idea precisa di come misurare tutto questo, e si fa nell’unico modo che abbiamo inventato: obbligare qualcuno a memorizzare una certa quantità di informazioni e ripeterle/spiegarle agli esaminatori senza doversi aiutare attraverso i libri dove le ha studiate. E poi diamo un voto a tale abilità.
Voglio riportare una storiella di antichissima saggezza popolare che spesso racconto in situazioni del genere.
Un giorno un allievo domandò al suo maestro: «Ho letto tantissimi libri, ma nella maggior parte dei casi non ricordo più nemmeno i loro titoli. Ma allora qual è lo scopo della lettura?».
Il maestro non rispose ma disse all’allievo di avere sete, e gli chiese di portargli un po’ d’acqua dal vicino fiume raccogliendola con un vecchio setaccio arrugginito che si scorgeva abbandonato nelle vicinanze.
L’allievo sbigottì a questa richiesta del tutto insensata. Come poteva raccogliere l’acqua e portargliela dentro un setaccio? Ma per non contraddire il suo maestro ci provò lo stesso.
Dopo innumerevoli tentativi si dovette arrendere, e rivolgendosi al suo maestro gli disse: *«Perdonami, ho fallito. Non riesco a portarti quell’acqua perché fuoriesce quasi subito dal setaccio e si perde per strada»**.
«No!» - rispose il maestro - «Non hai fallito. Guarda ora il setaccio com’è pulito, sembra nuovo di zecca. L’acqua che ha filtrato dai suoi buchi lo ha ripulito e rinnovato. Ecco quello che accade quando si legge: noi siamo il setaccio e i libri sono l’acqua, e con le loro parole, idee, conoscenza, emozioni, ci ripuliscono nella mente e nello spirito. Non serve ricordare tutto, perché i libri li abbiamo vissuti e ci hanno reso quello che siamo».
Dopo aver narrato la storiella mi piace riflettere su una cosa che accomuna tutte le storielle di questo genere: chiedetevi perché i maestri simil-Zen sono tutti così sadici da far impazzire i propri allievi a fare cose che potrebbero semplicemente spiegare. Ma sono certo abbiate intuito che la ragione esiste nel collegare l’esperienza alla lezione, ottenendo così il massimo dell’effetto formativo. Proprio questo è un altro problema di cui qui non parleremo: la ridottissima sperimentazione del sapere acquisito in ambito accademico (laboratori, tirocini, etc.). E’ un’altra storia.
Da tale racconto potremmo poi condurre a tanti pensieri filosofici e scientifici nell’arco di qualche millennio, ma per brevità ci proiettiamo subito ai giorni nostri per osservare la sintesi che potrebbe offrire Umberto Eco col suo celebre aforisma: «Essere colti non significa ricordare tutte le nozioni, ma sapere dove andare a cercarle». Più precisamente disse questo:
Per me l’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma colui che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve, e in due minuti.
(tratto da “Se tutta la conoscenza è un viaggio giocoso”, Stefano Bartezzaghi a colloquio con Umberto Eco, su Repubblica del 01/09/2003)
Einstein, confermando tale sintesi, una volta rispose a un tizio che gli chiese quale fosse la velocità del suono: «Non ricordo tale informazione a memoria, si possono trovare facilmente nei libri. Lo scopo dell’istruzione non dovrebbe essere ricordare molte cose, bensì insegnare a ragionare».
Certo! Ma il problema è che dopo dimentichiamo!
A parte le massime di saggezza, ciò avviene anche per ragioni scientifiche. La cosiddetta MDL, memoria di lavoro - parte della MBT, memoria a breve termine - è davvero efficiente ma ha una capacità di immagazzinamento molto limitata, non può assolutamente contenere nozioni e spiegazioni per circa 1500 pagine di un testo di materia annuale in facoltà scientifica (cfr: Baddeley & Hitch, in “The psychology of learning and motivation”, 1974, capitolo “Working Memory”, DOI: 10.1016/S0079-7421(08)60452-1).
Eppure, visto che il sistema di verifica di una competenza acquisita si basa su ripetere o spiegare, ci siamo adattati a questa esigenza. Per esempio sono da sempre noti in psicologia dell’apprendimento alcuni validi metodi di studio per “forzare” la capacità della memoria di lavoro, permettendo di arrivare a infilarci dentro, per un periodo di permanenza davvero breve (pochi giorni), anche quelle 15oo pagine tecniche. E’ faticosissimo, ma possibile. E non ammette “ansiosi”.
Esistono poi dei “trucchi” mnemonici che non sono alla portata di tutti, e grazie ai quali si riesce a simulare una conoscenza che non si possiede affatto. Funzionano meglio in ambito umanistico e in generale per tutte quelle materie orali - anche scientifiche - ove l’esaminatore apprezza meglio la spiegazione e le capacità oratorie più della puntuale ripetizione di nozioni e la precisione terminologica. Trucchi non per tutti ma idonei a prendersi beffa del sistema di valutazione.
In entrambi i casi tutto scompare molto presto. Ma il risultato è certamente raggiunto: l’esaminatore si è bene o male accertato che, in quella mezz’ora (trucchi a parte), lo studente ha filtrato le nozioni richieste attraverso il suo setaccio mentale. Come l’allievo di quel saggio maestro di prima.
Non è una strategia vincente!
Il perché è già chiaro.
Il sacrificio richiesto non è solo inutile per lo studente, che da esso non trae alcun vantaggio futuro e professionale, ma è inutile per l’intero sistema formativo e sociale. Non ci sono infatti garanzie che i setacci “certificati” dal passaggio delle nozioni produca solo ottimi professionisti e non anche pessimi o mediocri elementi abilitati allo sbaraglio (infatti accade puntualmente). E quel che è peggio sono coloro che perdiamo per strada, ansiosi e/o a disagio nel forzare la propria memoria di lavoro per dimostrare di aver acquisito delle nozioni. Potenziali e bravissimi professionisti di cui non potremo mai godere.
Tutti i sistemi sono imperfetti, è naturale e dobbiamo accettarlo. Ma dopo averlo accettato possiamo fare qualcosa per migliorare, perché se non facessimo nulla diventeremmo complici ingiustificabili di quella perdurante imperfezione.
Ed ecco finalmente che dirò quella parola: Docimologia.
E’ una disciplina molto giovane, e se ne parla di più (ma ancora poco) nei due cicli d’istruzione precedenti la formazione universitaria (cfr, un recente paper introduttivo: “La sfida neuro-docimologica: criticità e strumenti possibili”, 2021, in “Education Sciences & Society, 2/2021 ISSN 2038-9442”, LINK ESTERNO).
Nell’ambito specifico della valutazione dell’apprendimento in sede universitaria, il dibattito fa timidamente i suoi primi esordi. Interessante, ad esempio, il progetto IDEA proposto nel paper di Serafina Pastore “Valutare (per migliorare) la qualità didattica del sistema universitario italiano: progetto IDEA” (2015, MeTis, Anno V n. 2, LINK ESTERNO).
Timidi approcci e tempi troppo dilatati. Si rimane ancora lontani dal nostro obiettivo, quello di tenere vivo e acceso il dibattito e usare tutte le energie per prendersi realmente cura dei malanni che affliggono l’attuale sistema di valutazione. Quel sistema ancora granitico e autoreferenziale del “impara e ripeti per dimostrare di aver studiato” (in brusca sintesi).
Vogliamo mantenerlo tale e quale? Si può fare anche questo; esistono margini di miglioramento. Ad esempio potremmo immaginare la spacchettamento di alcune pesanti materie di studio suddividendole in diverse sessioni intermedie di dettaglio e una finale di sommario. Ripensare, insomma, agli schemi dell’annuale e del semestrale in un’ottica di unità e subunità. Si appesantiranno piani di studi e sistema di valutazione, ma sarebbe già un prezzo più accettabile per scremare i talenti e limitare dispersioni e abbandoni.
Certamente non si dovrebbero lasciare le cose come stanno, continuando a premiare le poco utili abilità plastiche della memoria e delle eventuali capacità mnemoniche che aggirano il sistema, distanti dall’accertamento della realtà formativa degli studenti, nella loro effettiva capacità di avere elaborato l’argomento e sapere quel dove cercare, approfondire, astrarre e risolvere, che significa anche vedere veramente brillare quel setaccio ripulito dalla lettura, dal sapere, dalla passione di studenti che perciò risultano veramente preparati.
Cari alunni, come da titolo: sapete della docimologia? Forse si, forse no. E avete così tanto da fare nei vostri corsi preparatori e specializzanti che ora vi darò solo un problema in più: fatevi sentire nei vostri atenei. Comunicate, con garbo e determinazione. Il dibattito deve aprirsi, essere costante, e le ricerche docimologiche ampliarsi e diventare un faro per far emergere nuove garanzie e ridurre dispersione e abbandono.
Un maggior valore che non agevola solo gli studenti ma diventa parte dell’humus di una società sempre migliore: culturalmente e professionalmente.
base foto: Gerd Altmann (geralt), generato tramite AI, da Pixabay
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