In uno scambio di vedute da social sono stato incalzato sulla questione “ragionamento razionale”.
Ciascuno si crede capace di condurlo con successo durante ogni proprio confronto, e usa in scioltezza terminologie come “logica” e intercalari come “ovvietà”. Invece la gran parte non conosce minimamente i rigori della logica né tantomeno cosa sia un’ovvietà. Sono affatto capaci di ragionare usando una retorica razionale e analitica. Farlo notare innesca quasi sempre improperi di varia specie.
Solo in casi più rari (quasi educati) l’invettiva è sostituita da una provocazione caustica, che sottende il quesito del come si dovrebbe approcciare al confronto razionale senza far prevalere le proprie convinzioni, spesso incardinate nel cosiddetto “pensiero magico”. Di questo possiamo sicuramente occuparci. Invero lo faccio spesso e ho scritto parecchio sul tema, essendo il perno di ogni mia riflessione. Una costante ricerca di nuovi profili argomentativi per esplorare tutte le angolazioni possibili dell’essere il più possibile persone razionali ed equilibrate.
Oggi provo a parlarne attraverso una prospettiva fisiologica, partendo da una domanda scientifica: cosa accade nella nostra mente nel corso delle esperienze?
I nostri cinque sensi, vista, udito, gusto, olfatto, tatto, estesi alle numerose capacità percettive delle funzioni organiche (equilibrio, pressione, tensione, propriocezione, dolore, etc.), costituiscono l’ingresso dei dati che vengono poi elaborati e immagazzinati dal cervello. Ma non si consolidano ugualmente in tutti gli individui, come se fossero algoritmi basati su logica binaria. E’ qualcosa di più complesso e ancora non chiaro.
Esiste una specie di setaccio grossolanamente abbozzato sin dalla nascita (indole personale) le cui maglie si definiscono sempre più finemente via via che si sperimentano le esperienze, e ciascuna esperienza è costretta a passare attraverso questo setaccio. Quindi gli eventi non solo affinano il setaccio personale ma vengono filtrati da esso. Chiaramente, più si consolida il setaccio e meno possibilità hanno gli eventi di modificarlo ulteriormente.
Diventiamo ciò che viviamo.
Quello che viene immagazzinato nella mente fa i conti continuamente con quanto si è già consolidato, e può apparire piacevole o meno in dipendenza del modo, del tempo, dell’intensità e della successione in cui è stata vissuta ciascuna esperienza. Per esempio, dall’imparare in un contesto sereno e stimolante, al dover invece imparare reagendo a situazioni violente o sgradevoli. Si impara ugualmente, ma con esiti formativi e valori estremamente diversi.
Si avranno quindi ricordi e nozioni che ciascuno, nel suo vissuto, collocherà in una determinata scala valoriale, e la mente verrà così istruita a reagire e elaborare allo stesso modo esperienze simili, o anche apparentemente simili ma molto diverse nella realtà oggettiva.
La mente “aggiusta” automaticamente i nuovi dati acquisiti secondo gli schemi che ha precedentemente costituito attraverso il suo setaccio, ed entrano in gioco processi fisiologici legati all’ippocampo e all’amigdala, facenti parte del sistema limbico, e il cosiddetto asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene). Processi interni alla “centrale delle emozioni” che sollecita il sistema nervoso centrale, vegatitivo e neuroendocrino, determinando il rilascio di ormoni “stressor” (come il cortisolo) oppure gradevoli endorfine. Avremo così reazioni tanto equilibrate quanto esagerate o psicotiche, dando origine a convinzioni ossessive, cocciute, contorte, inutilmente complicate o troppo superficiali, e così via, affiancate da relative emozioni disagevoli come ansia, paura, rabbia, euforia, sconforto, afflizione. O il loro esatto contrario, con mille possibili sfumature.
E tutto dipende - ribadiamolo - da come i nostri sensi e processi percettivi hanno vissuto ed elaborato ogni singola esperienza, la somma soggettiva di quello che impariamo e ci capita. Grosso modo questo è il processo cognitivo del come si diventa coscienti e sensibili man mano che la vita ci scorre davanti, cercando adattamenti presso l’ambiente circostante tramite valutazioni sostanzialmente soggettive, che dunque permettono alla mente di attribuire significati e produrre risposte fisiologiche al proprio vissuto.
Ma come è già chiaro, il dramma - per la mente - sta proprio nel fatto che non tutti viviamo le stesse esperienze, e quand'anche accada non sarà nella stessa misura, sequenza, intensità. Perlomeno quelle di base che descrivono la realtà oggettiva, necessarie a tutti gli individui per maturare un set emozionale equilibrato e mantenersi razionali. I traumi da set esperienziali disordinati e tossici soggettivizzano la realtà in maniera eccessiva, aggiustandola per renderla tollerabile al proprio vissuto. Un meccanismo di conservazione e difesa, soprattutto, che paradossalmente fallisce proprio nel provare a difendersi.
Questa sintesi, dopo svariate e approfondite letture scientifiche, a mio parere riunisce abbastanza bene gli esiti concettuali delle tre scuole di psicologia più note: la psicoanalisi (Freud), la psicologia analitica (Jung) e la psicologia individuale (Adler). E soprattutto si sposa benissimo con medicina e discipline delle neuroscienze.
Rimane da capire quale sia questo “set ideale di esperienze di base” che ho più volte citato. Sarebbe quello che permetterebbe di sviluppare una mente equilibrata e delle emozioni gestibili; come costruire un puzzle senza dover cercare le tessere da incastrare tra quelle caoticamente sparse sul tavolo, ma averle già tutte pronte in sequenza.
Come si fa? Non ne ho la più pallida idea! E forse non sarebbe nemmeno stimolante, considerata la metafora del puzzle.
Ma possiamo aggirare il problema. Semplicemente non fidandoci ciecamente nei nostri sensi e percezioni nell’acquisire il dato come appare dall’esperienza. Ciò significa criticare l’esperienza, prima che essa filtri attraverso il nostro setaccio e vada a comporre un puzzle di pensieri distante dalla realtà oggettiva.
Costruiamo un setaccio a monte, che metta sempre in dubbio l’apparenza, componendo quel puzzle nel modo più realistico possibile.
Critichiamo ogni tessera, perché altrimenti avremo solo l’illusione di incastrare tra loro i pezzi giusti, generando illusioni mentali identiche alle illusioni ottiche, che come ben sappiamo sono le ricostruzioni mentali di un rappresentazione di realtà possibile, tratta dalle “esperienze setacciate”, ma non per questo reale e oggettiva, come negli esempi che vediamo di seguito.
Visione prospettica basata sulla “Stanza di Ames” - L’osservatore, da un preciso punto, riceve informazioni visive che non consentono di ricostruire l’esatta forma dello spazio e la collocazione e distanza degli oggetti; così appare che le dimensioni delle persone che si muovono mutano in maniera irrazionale. Il cervello viene ingannato anche se conosce forma e proporzioni di quello spazio. (fonte: Pinterest).
In questa figura la barra orizzontale è di colore grigio uniforme, ma appare di gradiente inverso rispetto allo sfondo. Potete ingrandirla quanto volete, ma se non si elimina il gradiente dello sfondo non si potrà mai osservare l’uniformità reale della barra (fonte: Dodek, Wikipedia, CC BY-SA 3.0, https://it.wikipedia.org/wiki/Illusione_ottica)
Se mettiamo in discussione ogni esperienza non dobbiamo più preoccuparci di trovare un sistema per vivere esclusivamente esperienze “sane”. Anche perché non è proprio possibile. Nessuno, davvero, ha la più pallida idea di come poter vivere solo esperienze congeniali al proprio abbozzo caratteriale, tracciato nel grembo materno ma da modulare al meglio.
Ciascuno di noi vivrà - inevitabilmente - miriadi di “allucinazioni mentali” come le illusioni ottiche appena viste. La nostra mente li genera facilmente nel tentativo di mitigare un percorso esperienziale mal setacciato, cercando di dare un senso alle emozioni esagerate, sgradevoli o deviate, che il nostro sistema limbico e l’HPA sviluppano come risposta.
Se non ci distacchiamo e critichiamo le esperienze, nel peggiore dei casi andiamo incontro a patologie mentali (anche la stupidità lo è). Nel migliore dei casi, invece, si entra nel “pensiero magico” come accade di solito ai bambini: un rifugio surreale ma confortevole, per non affrontare una più ingombrante o temuta realtà oggettiva.
La critica, dunque! Questa è la chiave per sviluppare un pensiero razionale in chiunque e a prescindere dal proprio vissuto. Tempo fa feci cenno alla critica per eccellenza, ossia quella kantiana “della ragion pura”, ed è forse un’altro capo, più filosofico, di questo nostro discorso, a cui vi rimando per completezza (naturalmente è un rimando eufemistico).
E se la critica è la chiave, la serratura è una buona dotazione culturale. Ampi spazi da dedicare all’approfondimento culturale, con letture diversificate e una buona dose di saggistica, previene e cura ogni forma di apatia e approccio acritico alle esperienze. Non parliamo solo dell’istruzione scolastica, che è troppo limitata al nozionismo, ma al libero e consapevole accesso all’immenso scibile che oggi è alla nostra portata senza nessuno sforzo economico.
Non è poi così difficile usare in maniera consapevole quei termini “logica”, “ovvietà”, “tesi”, “opinione”, “assioma”, “teoria”, “retorica”, “contesto”, e affini, per approdare al confronto analitico e razionale, anche aspro ma mai litigioso. Basta volerlo.
Base foto: Emmanuel Lefebvre (Gribouillle) da Pixabay
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