La riconoscete questa espressione gergale riportata nel titolo? Se siete un po’ vintage come il sottoscritto magari non vi risulterà di comprensione immediata. I più giovani però non avranno alcuna difficoltà a riconoscere la metafora della scimmia che salta addosso a chicchessia - metafora invero non così recente - per ossessionarlo nel desiderare qualcosa fino e suscitargli vere e proprie crisi d’astinenza.
E il RBU, invece, cosa sarebbe? In passato ne ho fatto spesso cenno, specie ogni volta che assisto a proclami di chiunque sul “creare nuovi posti di lavoro”. In tal caso mi prende - appunto - la scimmia del RBU.
Come premessa lasciate che inizi citando un brano da un libro di Galimberti, che su alcune cose ritengo sia maestro di sintesi (il grassetto è mio).
[...] sotto l'imperativo della crescita, il lavoro è visualizzato nel solo ambito dell'economia, che però, in una società che si fa sempre più tecnologica, comporta un'inevitabile riduzione dei posti di lavoro. E così, paradossalmente, quello che è sempre stato il sogno più antico dell'uomo, la liberazione dal lavoro, si sta trasformando in un incubo.
Siccome il processo è irreversibile, nonostante i correttivi, i finanziamenti mirati, i contratti d'area, i lavori a progetto, i lavori precari e quelli socialmente utili, nonché altre soluzioni che la politica tenta di escogitare per scongiurare l'incubo, forse, come ci ricorda Franco Totaro (1) non c'è altra via d'uscita se non quella di ripensare il concetto di lavoro, che l'economia globalizzata da un lato e l'apparato tecnico dall'altro hanno a tal punto identificato con l'esistenza da rendere a tutti evidente l'equazione secondo la quale, dal punto di vista sociale, chi non lavora non esiste. Ma è davvero così? O questa equazione si legittima solo a partire dalla nozione di lavoro che l'economia globale da un lato e l'apparato tecnico dall'altro hanno messo in circolazione, senza prendere minimamente in considerazione il fatto che, dietro ogni lavoro, c'è un uomo che lavora?
Se già un secolo e mezzo orsono Marx segnalava l'alienazione dovuta al fatto che, nel sistema capitalistico, la forza lavoro non ritorna al lavoratore nella misura in cui da questi è stata profusa, oggi, come opportunamente fa osservare Totaro accanto all'alienazione nel lavoro, di cui il nostro tempo sconta le conseguenze ideologiche, fa la sua comparsa l'alienazione da lavoro, che consiste nel completo appiattimento dell'uomo sulla sua attività lavorativa, come se questa fosse divenuta l'unico indicatore della riconoscibilità dell'uomo.
[...]
Ma allora fulminea rimbalza la domanda che Totaro si pone e che esige un'immediata rivisualizzazione del problema. Essa chiede: i fini dell'economia che punta solo sulla crescita sono anche i nostri fini? O siamo noi diventati semplici strumenti dell'ideologia della crescita, la quale ci impiegherebbe come momenti della sua organizzazione, semplici anelli insignificanti della sua catena, o, se preferiamo, mezzi imprescindibili, ma anche fra i più intercambiabili di qualsiasi altro mezzo, all'interno di un apparato economico diventato fine a se stesso?
-- da: “I miti del nostro tempo”, Umberto Galimberti (2009, Feltrinelli)
1) F. TOTARO, "Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Vita e Pensiero", Milano 1998.
Galimberti appare chiarissimo, come del resto lo sono le citazioni su Totaro. Riducendo all’estrema sintesi il suo scritto notiamo l’accento sull’attività incessante dell’uomo che si ingegna per potersi finalmente affrancare dalla fatica e dal lavoro. Perciò ha realizzato mezzi tecnologici sempre più avanzati e in grado di sostituirlo nelle sue attività routinarie. E tale progresso appare inarrestabile.
Ma se l’uomo persegue da sempre questo sogno, perché mai - si chiede Galimberti, e ce lo chiediamo tutti noi - la politica si affanna ovunque a cercare sistemi per creare nuovi posti di lavoro?
Più che paradossale sembrerebbe del tutto folle!
Tuttavia, proseguendo nella lettura parrebbe prospettarsi una spiegazione se concordiamo con la concezione del lavoro economico quale fattore imprescindibile e identitario dell’uomo. L’esistenza dell’uomo avrebbe senso solo se egli contribuisce alla crescita economica infinita su cui il sistema capitalistico si fonda. Tale conclusione non appare però ragionevole a Galimberti, che compie così alcune critiche proprio su questi sistemi fondanti che appaiono in aperto contrasto con l’obiettivo di affrancarsi dal lavoro funzionale all’economia.
Ma se notiamo bene la faccenda appare semplice: non ha senso pretendere che il lavoro funzionale all’economia capitalistica debba per forza essere svolto dall’uomo, e non invece dai suoi congegni artificiali e ipertecnologici che realizza proprio a tale scopo. Infatti, a ben vedere, l’obiettivo è sempre conseguito: sia che lo faccia l’uomo, sia che lo faccia una sua macchina. La produzione rimane sempre salva.
Però così torniamo a quel folle paradosso che in effetti non sembra trovare soluzioni valide, rievocando la medesima domanda: perché la politica cerca sistemi per aumentare posti di lavoro dove si vanno sempre più a perdere irreversibilmente?
Si potrebbe riflettere sull’esigenza dello stipendio che percepisce il lavoratore economico. Se il lavoro lo fa la macchina chi mai pagherà l’uomo stesso, e per cosa?
La politica che si pone tale domanda risponderebbe che è semplicemente impensabile che qualcuno percepisca denaro senza lavorare, solo perché sostituito da una macchina. Ma è davvero così impensabile?
In realtà è semplicemente il sistema capitalistico a non prevederlo. Esso, tra l'altro, implica la massimizzazione degli utili, e se l’imprenditore può risparmiare dei soldi senza intaccare la produzione è fantastico! E appare fantastico anche quando l’origine del risparmio è la sempre più ridotta esigenza di servirsi del lavoro umano. Se nei paesi poveri il capitalismo è sfruttamento e schiavismo (che costa anche meno della tecnologia), in quelli ricchi sta sempre più diventando un sistema che non ha nemmeno bisogno di sfruttare nessuno.
La politica non può (rectius: non vuole) in alcun modo applicare dei correttivi a questi aspetti conflittuali del sistema capitalistico, per cui va letteralmente nel pallone e continua a blaterare sulla possibilità di crescere e aumentare i posti di lavoro. E certa politica inoltre - come il nostro attuale governo - giunge allo sproloquio delirante laddove mese dopo mese sciorina dati ISTAT cercando di convincere i cittadini che stanno aumentando i posti di lavoro.
Ma siamo seri?
Paradossalmente sarebbe anche possibile un aumento dei posti di lavoro, ma soltanto se paesi come l’Italia - ancora “ricchi” sulla carta - si impoverissero a tal punto da far divenire più conveniente lo sfruttamento del lavoro umano, piuttosto che l’uso della tecnologia sostitutiva.
E credo stia già avvenendo.
Anche se eticamente inaccettabile appare un buon sistema per evitare di intervenire sui delicati equilibri che impone il capitalismo, per cui risulta più agevole impoverire la gente e indurla ad accettare lavori sottopagati. Tornare, però, a un regime di semi schiavitù non può che essere soluzione a breve termine, per quanto il panem et circenses e la drammatizzazione in guerre e conflitti internazionali possano oggi mitigare e distrarre, sitrando i tempi. Sarà comunque molto breve, perché bene o male l’informazione e la cultura minima dei cittadini permettono già di riconoscere i tratti di quanto sta avvenendo, e si può anche confidare sulla matrice degli eventi storici passati. Tutti arriveranno così, senza particolare sforzo intellettuale, a realizzare una sintesi intuitiva di quanto tutto questo risulti sbagliato, e ribellarsi anche malamente.
C’è poi l’altro problema. Se anche si riuscisse per un periodo a mantenere il gregge obbediente, cosa ce ne faremo di tutta la tecnologia e l’intelligenza artificiale che si è già sviluppata? Appare evidente che non si riesce nemmeno a a imbrigliare tale evoluzione, perché - ed ecco un altro paradosso! - questo lato produttivo che origina dall’intelletto umano fa parte integrante della crescita economica del sistema capitalistico (ricerca, progettazione, sperimentazione, invenzione: scienza, in una parola), e se la si imbriglia troppo si rischia di risolvere un problema creandone uno ancora più grande, o incerto.
E allora, di nuovo: che ce ne facciamo di questa benedetta tecnologia?
La domanda è solo retorica, poiché la tecnologia esiste, evolverà, viene utilizzata oggi e ancor più lo sarà domani, nel suo progredire. Il mondo imprenditoriale è libero e la utilizza a seconda di come risulti più conveniente investire sul mercato del lavoro locale: macchine, individui o schiavi! Alla fine la conseguenza sarà sempre inevitabile, e alla perdita occupazionale ordinaria, surrogata dalle macchine, si unirà la crescente penuria di personale intellettuale e specializzato (l’altro problema di quella politica che non punta sull’alta formazione dei cittadini), e costringerà tutti a dover fare i conti con il problema.
Dunque è solo questione di tempo; è l’unica cosa che sarebbe saggio evitare è quella di arrivarci in condizioni di disordine sociale ed emergenziale. Finirà indubbiamente così se non ci pensiamo adesso; oggi siamo solo agli inizi. Non solo qui in Italia ma ovunque nel mondo intrecciato dal globalismo capitalista. Alcuni paesi, proprio come l’Italia, avranno un bel da fare dopo aver sacrificato perfino il Reddito di Cittadinanza all’altare del furore ideologico e della più pericolosa stupidità politica.
Non v’è alcun dubbio che misure di temporaneo sostegno, come il RdC, potevano fare da anticamera al più ragionevole RBU, cioè al Reddito di Base Universale e incondizionato, che senza giri di parole deve naturalmente gravare soprattutto su quel risparmio che le aziende traggono dall’uso delle nuove tecnologie e dalla riduzione del personale salariato. Questo ci conduce sempre allo stesso punto, e cioè al dover ripensare al liberalismo economico sfrenato, alla ricchezza senza limiti, alla sacralità di un profitto inossidabile, che caratterizzano alcuni pilastri del sistema capitalistico mondiale.
Non possiamo nemmeno pensare ad alternative come la riduzione della popolazione mondiale, in maniera da ridurre anche gli aspiranti lavoratori e le conseguenti bocche da sfamare, poiché tali bocche sono quei “consumatori” indispensabili che caratterizzano il pilastro centrale del sistema capitalistico.
Non pare vi sia davvero alternativa al Reddito di Base. E non perché lo dica il sottoscritto, come centinaia di intellettuali e studiosi che non si stanno risparmiando nel cercare di far capire questa cosa semplice, ma perché nessuno ha mai proposto soluzioni alternative credibili e accettabili per riuscire a far convivere il progresso tecnologico odierno con le esigenze dell’economia capitalistica. Mi sto anche guardando dal criticare la favola della “crescita infinita” (l’ho fatto in svariate altre riflessioni), perché qui voglio rimanere fedele al principio economico di “un passo per volta”. E verso il RBU si tratta peraltro di un passetto di bimbo.
Se però facciamo salvo il capitalismo e la crescita non vorrei ancora inciampare in quelle stupide osservazioni: «Ma se pagassimo chi non lavora, questi non sarà incentivato a cercarsi un lavoro!».
L’osservazione - lo ribadisco - è stupida per due, tra tanti, motivi.
Il primo lo abbiamo già affrontato. Se non è chiaro che il lavoro manca già oggi, e mancherà sempre di più, allora per ora mi arrendo. Lo spazio odierno dedicato a questa narrazione è stato momentaneamente esaurito.
L’altro motivo è banalmente legato alla natura dell’uomo. Checché se ne dica l’uomo è operoso e pensante per genetica, e non può starsene sul divano a far nulla. Lo farà nella percentuale delle sue varianti patologiche già esistenti dall’alba dei tempi (pigri, criminali, apatici, etc.), e magari qualcun altro sarà incentivato a far parte di tali varianti (escludendo il crimine, che è palesemente disincentivato dalla pagnotta sicura). Il netto, e non patologico, è quello di chi non può fare a meno di attivarsi, e non solo per le ragioni del lavoro economico. Non servono, e non serviranno più, decine di migliaia di schiavi per erigere le piramidi egizie, perché possono farlo tranquillamente macchine, droni, e pochi sovrintendenti. Con pochi altri ingegneri per progettare.
Lo transizione, poi, verso il lavoro creativo e intellettuale (e anche spirituale/solidale, nella versione non economica del lavoro stesso) non è nemmeno una transizione, ma il nuovo limite che da tempo si narra come attitudine umana, meglio di tutti declamata da Dante per bocca di Ulisse: «Considerate la vostra smenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». E impossibile concepire l’ozio fine a sé stesso, ma il più alto obiettivo che incita al pensiero e all’operosità, che anche Pascal volle a suo modo rimarcare.
Niente è tanto insopportabile per l'uomo come il rimanere in un riposo assoluto, senza passione, senza affari, senza divertimento, senza applicarsi. Allora avverte il proprio nulla, l'abbandono, l'insufficienza, la dipendenza, l'impotenza, il vuoto. Dal fondo della sua anima uscirà quanto prima la noia, l'orrore, la tristezza, il dolore, il dispetto, la disperazione.
-- Blaise Pascal, “Pensieri”, Noia, n. 530
Perdersi in miriadi di citazioni dell’ovvio non vuole essere il fine di questa non breve riflessione, e naturalmente mi fermo a queste poche ed essenziali che ben rendono l’idea di quanto mi prenda la scimmia su questo tema. E per mai più, un giorno, dover scrivere dell’ozio del genio. Oggi avremmo anche cose più importanti da scrivere che perderci in questioni umane tutto sommato facili, perché preme sempre più la manutenzione straordinaria che è necessario dedicare al più presto alla nostra “navicella spaziale”.
Vorrei infine invitarvi a dimenticare questa mia scimmia e rileggere soltanto quella breve citazione iniziale su Galimberti. Da essa si può trarre indubbiamente tutta l’ispirazione utile per ogni propria autonoma riflessione. Ed è questa la cosa a cui terrei di più da parte di chi mi legge.
Base foto: Generata dall’IA (DALL-E 3), il 08/04/2024
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