C'è molta gente che pur essendo buona e mite scatena la propria rabbia e vendetta contro chiunque ne sbarri appena la strada. Vive contro la propria natura, e per riuscirci fa l'unica cosa possibile: coltiva incessantemente il proprio cinismo. Si allena all'indifferenza, alla freddezza, con gli ottimi spunti che riceve quotidianamente dalla stampa e da ogni altro media.
Riesce così a seppellire nella propria armatura di cinismo l'umanità che ne costituisce l'essenza. E qui lo ricordo con l'arte del Caravaggio che interpreta “Le sette opere di misericordia” in un dipinto colpito dall'usuale gioco di luci di cui è stato maestro ineguagliabile.
Accade perché oltre a essere buoni e miti gli esseri umani hanno anche un forte istinto di sopravvivenza. Basta incontrare un efferato mascalzone proprio simile - ben più raro nel genere umano - per determinare quel trigger di cattiveria che trasformerà il buono in un cinico diffidente e talvolta anche lui spietato. Ed è una condizione da cui non ci si riprende facilmente.
Per questo nel mondo pensiamo ci siano più “cattivi” che “buoni”. Invece molto cattivi non sono altro che il prodotto di quei pochi, davvero pochissimi, veri cattivi.
Non si può apparire deboli. E quell'istinto di sopravvivenza, peraltro alle condizioni scandite dall'attuale società, ce lo sussurra costantemente all'orecchio. Così accade l'assurdo: persone fondamentalmente buone lottano tra di loro, e a nessuna di loro probabilmente capiterà di lottare contro un vero cattivo.
Ma possiamo mai far finta di non sentire quella vocina?
No, ci mancherebbe. Perché così come la natura ci ha costruiti fondamentalmente buoni, se ci ha anche dotato di un campanello di allarme sarà anch'esso cosa buona e giusta. E non dobbiamo assolutamente ignorarlo. Anzi.
Quello in cui sbagliamo, o, se volete, quello in cui siamo estremamente superficiali, è nell'uso della RAZIONALITA'.
La logica, il ragionamento, l'approfondimento, la ricerca, il mettersi nei panni degli altri (empatia), il senso di giustizia, sono tutti elementi che costituiscono l'altra più importante e unica qualità dell'essere umano: l'essere senziente, pensante. E dunque la capacità di razionalizzare.
Se ascoltiamo il nostro istinto senza criticarlo, assumiamo un comportamento irrazionale: istintivo, appunto! Ed è questo che ci trasforma in qualcosa che non siamo, pur di sopravvivere. Ma vedete quant'è importante l'accostamento che ho appena fatto? “Istinto di Sopravvivere”, una caratteristica che hanno anche gli animali, ma loro non hanno la capacità di razionalizzare. Questo ci distingue dagli animali, badate bene!
Quindi abbiamo l'obbligo di pensare e riflettere bene. Ogni volta che ci troviamo di fronte a un sopruso, o qualunque altro evento prevaricante della vita, dobbiamo valorizzare l'evento e fornirlo di una spiegazione razionale, per decidere se la risposta corretta sia quella di soprassedere, mitigare o reagire. E se la cosa migliore si rivelasse nel reagire, allora dobbiamo farlo con assertività e non assorbendo le negatività dell'evento e perseguendole a nostra volta come metodo di risposta/difesa.
Parlo spesso di Gandhi come uno dei più forti esempi contemporanei di reazione non violenta, di lotta senza quartiere pur senza rinunciare alla propria natura mite e buona. Una persona che ha combattuto come pochi senza essere assorbito dalla lotta trasformandosi in un falso cattivo, cinico e pericoloso.
Ma mi viene in mente anche un altro insegnamento, più astratto rispetto ad esempi di vita concreti come quello di Gandhi e molti altri, ma altrettanto potente nel suscitare buone riflessioni. E sicuramente più autorevole delle mie esigue parole (lo scrivo così come lo ricordo).
C'era un Re crudele che puniva duramente i trasgressori. Se qualcuno violava le regole o minacciava il suo villaggio, lo metteva facilmente a morte. Ma benché si comportasse così, non si sentiva a proprio agio. Infine la sua coscienza lo spinse a consultarsi col Buddha, affinché gli consigliasse come governare il suo popolo e gestire gli eventi avversi senza dover essere così crudele per farsi rispettare.
Il Buddha suggerì al Re di essere più mite, usare la sua compassione, mettersi nei panni dei suoi sudditi, essere un Re giusto e ricordarsi che il male avvelena l'anima (Atman), mentre solo facendo il bene essa si purifica donando pace e serenità.
Il Re decise di seguire il consiglio del Buddha. Ma non appena iniziò a trattare il suo popolo con gentilezza e compassione, i cittadini cominciarono ad approfittarsene, diventarono più indisciplinati e si approfittavano continuamente della pazienza del Re e della sua impunità. Scambiavano la bontà del Re per debolezza e quindi ne facevano di tutti i colori.
Così, il Re tornò nuovamente dal Buddha a chiedere consiglio, ricevendo il seguente racconto come risposta.
Un serpente a sonagli viveva ai piedi di un albero. Era molto aggressivo, e mordeva chiunque si avvicinasse a lui. Tutti ne avevano terrore.
Un giorno un monaco passando di lì decise di riposarsi all'ombra dell'albero. Il serpente, sconcertato, si avvicinò al monaco e gli chiese: «Ma non hai paura di me? Lo sai che il mio morso può ucciderti?». Il monaco rispose: «Non temo la morte, quindi perché dovrei temere te? Tu mordi perché hai paura della morte. Vuoi difenderti uccidendo gli altri. Rinuncia a questo, e sarai in pace con te stesso».
Il serpente fu illuminato da quelle parole, e così decise di non mordere più nessuno, diventando docile e gentile.
Da quel momento nessuno ebbe più paura di lui, e alcuni iniziarono anche a deriderlo, finendo per percuoterlo, ferirlo e causargli dolore.
Passò del tempo e il monaco si ritrovò nuovamente a passare per quel sentiero. Vedendo il serpente triste e pieno di lividi gli chiese: «Ma cosa ti è successo? Chi ti ha ridotto così?». Il serpente rispose: «Da quando ho seguito il tuo consiglio tutti si approfittano di me e molti mi fanno del male. Ora cosa posso fare?».
Il monaco, accigliato, lo guarda e risponde: «Io ti ho detto di non mordere, di non uccidere, non ti ho detto che non dovevi difenderti nel modo giusto e usare i sonagli per sibilare verso chi ti minaccia!»"
Dopo questo racconto il Buddha chiese al Re l'insegnamento che ne avesse tratto. E gli ricordò che il consiglio era proprio quello di rinunciare a essere un Re crudele, ma non quello di rinunciare a essere Re. Rinunciare a essere autoritario, essendo invece autorevole e trovando il senso più alto di giustizia: essere monaco dentro di se, e sovrano con il proprio popolo.
Questo confine tra bontà e debolezza lo scopriamo solo se ci alleniamo a essere razionali ponendoci l'obiettivo di acquisirne saggezza. E ci donerà grande pace ed equilibrio interiore, anche quando dobbiamo reagire con forza e determinazione.
Allenarsi, invece, a essere sempre più cinici e indifferenti, per poter reagire nel modo più sprezzante, sciatto e menefreghista, ci avvelena soltanto. Non è la nostra natura, e vi garantisco che non è neanche il modo corretto per rispondere al nostro sacrosanto istinto di conservazione.
Finisco così? No.
La bontà più grande l'ha rappresentata certamente Gesù. Ma pensate che l'essersi fatto crocifiggere sia stata l'estremizzazione di questa bontà? La manifestazione più genuina della sua debolezza? E, dunque, una contrapposizione con l'insegnamento del Buddha che vi ho appena ricordato?
Ecco, non pensatelo.
Perché altrimenti non sono stato chiaro. E nemmeno Gandhi, temporalmente ancora più vicino, è stato d'esempio. Oppure non lo è chi non riesce ancora a capire.
Non è un problema non capire. Il problema è se smettiamo di provare a capire.
Base foto: “Le sette opere di misericordia”, Caravaggio, pubblico dominio
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