La regola d'oro non è una norma

La regola d'oro non è una norma

Siamo abituati a fornire al termine “regola” l’accezione di “norma”, ossia un comportamento richiesto dalla legge o dalla morale. Più estensivamente si pensa alla regola come metodo, cioè un sistema di esecuzione tecnica che porta a un determinato risultato; e infine si usa il termine per indicare qualcosa di usuale, nel tanto abusato e discusso contesto del “normale”.

Allora riflettevo.

Tutti questi significati non sembrano attagliarsi al principio di reciprocità, che appunto conosciamo anche come regola d’oro, o aurea.

Se ricordate, nella filosofia dei banchi di scuola è stata illustrata come un principio sia di forma negativa «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», sia di forma positiva «Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te». Le radici sono presocratiche, presenti tanto nella filosofia classica e moderna quanto in tutte le religioni esistenti. Non c’è effettiva memoria di un momento in cui tale principio si sia affermato, né sulle ragioni che l’hanno permesso. Nessuno, però, l’ha mai messo in discussione, e da tempi altrettanto remoti ha preso forma all’interno delle norme di diritto civile e penale a livello mondiale, ispirato alla prima formulazione nel diritto romano: “neminem laedit qui suo iure utitur”, da cui è derivato il più generale ed equilibrato neminem laedere, letteralmente e giuridicamente: non offendere nessuno.

Chiamarla “regola” è dunque limitativo perché collocherebbe quello che in effetti è un principio nell’alveo delle norme, di qualunque tipo esse siano. Non a caso è anche definito principio di reciprocità, come detto prima. In effetti vediamo che la legge prevede norme basate su tale principio; parimenti le religioni prevedono comportamenti morali che si attengono a esso. Non parrebbe, allora, che ci possa essere una particolare utilità nel collocare precisamente tale “regola”, già universalmente applicata in norme laiche e religiose. Pertanto, questa mia riflessione potrebbe apparire alquanto sofistica.

Io però miro a estrarre questa regola/principio da tali forme contrattualistiche dell’uomo, per farla vivere esclusivamente nel contesto da cui essa origina, così da trarne un senso più preciso, nobile ed elevato. Il significato a cui si dovrebbe pensare ogni volta, affinché quel definirla “d'oro” abbia un senso assoluto, e non soltanto relativo a logiche opportunistiche della società (ove peraltro vivrebbe tra le tante regole allegramente bistrattate).

Pensate, ad esempio, a quanto sia facile scambiare tale principio al do ut des, nel quale “io do affinché tu dia”. Dunque un principio relativo; una mera opportunità di scambio profittevole. Invece la regola d’oro è un principio assoluto. E cosa significa questo? Vuol dire, a parer mio, che è qualcosa di profondamente legato alla stessa natura umana, alle sue origini imperscrutabili ma qualificate nello scopo che accomuna tutti gli appartenenti alla specie: quello di porsi domande, riflettere, capire, scoprire, ed evolvere! Non facciamo altro da quanto esistiamo, e continueremo senz’altro a farlo.

Se questo è lo scopo dell’uomo, e la nostra regola d’oro opera come elemento primitivo che ne fa parte, allora dobbiamo ritenere che il rispetto di tale regola non è un dovere contrattuale ma il naturale compiersi del proprio essere, in una dimensione essenziale allo scopo. Ogni principio della natura umana non può che doversi seguire, altrimenti lo scopo verrebbe osteggiato, rallentato, diminuito nel suo potenziale.

Potremmo aggiungere, per ridurre ogni equivoco e perplessità, che il principio in argomento è necessario allo scopo perché utile a un altro principio primitivo, che è quello della cooperazione. Senza questa, non si avrebbe infatti progresso e conseguente evoluzione. Ma non credo sia necessario entrare in questa ulteriore disamina, perché potrebbe essere sufficiente quello che abbiamo già detto prima, ossia che il principio fondante della regola d’ora è stato assorbito ovunque nella società, senza critiche né richieste di giustificazione. Pare dunque quasi inoppugnabile - sempre fino a prova contraria - che il principio debba elevarsi allo status di elemento primitivo della natura umana!

Solo così posso trovare un senso nell’ascriverlo all’etica della reciprocità, come ad esempio titola una pagina di Wikipedia e molti altri contenuti letterari a tema. In essi non ho mai scorto la ragione più profonda per poterla annoverare tra i principi dell’etica, che sono appunto principi di ordine assoluto, e prescindono da morali di gruppo e norme di ogni altro genere.

E’ nell’intuito. Ed è sempre giusto chiedersi cosa ci faccia in quel posto, e chi ce l’ha messo.

Mi auguro possiate cogliere l’elevata importanza di questo principio: fondamentale come respirare, e come tale liberarlo dal controllo rendendolo atto automatico, involontario, continuo.

base foto: Particolare del dipinto “Thémis ou La Justice” di Bernard d'Agesci (1794, olio su tela), presso il museo “Bernard d'Agesci”, Niort (FR)

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P. Giovanni Vullo

In questa navicella spaziale, vado in giro a fare scoperte. Provo a capire come funziona. E ve lo racconto.