Grazie alla metamorfosi il bruco diventa una bellissima farfalla. Ma se qualcosa va storto si finisce per vivere in una condizione kafkiana, dove la metamorfosi prende forma attraverso l'omonimo racconto del geniale Franz Kafka.
Si diventa come Gregor Samsa, il celebre personaggio protagonista che un bel giorno si sveglia scarafaggio, e tra mille vicissitudini perimetrate nella sua stanzetta alla fine trapasserà. La sua famiglia lo dimenticherà presto per forza maggiore, destinandolo all'oblio dopo esserne stato perno centrale.
Dopo avervi indegnamente spoilerato questo famoso classico letterario (ma essendo famosissimo lo conoscerete senz'altro), e averne un po' manipolato l'allegoria che vi sta dietro, vorrei che focalizzaste l'attenzione solo sull'elemento cardine: la metamorfosi che tutti subiamo nel corso della vita. Possiamo diventare fantastiche creature, oppure (rimanere, per alcuni) insetti molesti, vivendo una perenne situazione kafkiana.
Il mio mondo ruota attorno alla consapevolezza, e vi confesso di esserne totalmente dipendente. Mi turba e addolora che questa buona droga non venga consumata universalmente e quotidianamente. Che non sia l’assuefazione principale a cui tendere.
Forse la consapevolezza rattrista?
Si. Molto spesso. Rattrista e fa arrabbiare come nessun’altra cosa al mondo, ma permette di ragionare sulle soluzioni, per superare le stesse tristezze e arrabbiature che emergono dalle mille altre ragioni per cui essere felici. Perché la consapevolezza esiste nel bene e nel male.
Non cercare la consapevolezza significa voler tenere gli occhi bendati e sperare che le cose si risolvano da sole. Ma questo è impossibile. Difficile, anche, che qualcun altro le risolva al posto nostro. Ce ne dobbiamo rendere conto e occuparcene direttamente; e se lo facciamo diventiamo già consapevoli della prima cosa: la necessità di essere consapevoli. La prima tappa della consapevolezza è appunto volerlo essere, porsi l’obiettivo di arrivare a essa in ogni circostanza della vita, fosse un problema o una cosa felice.
Per esempio, quando pensiamo ai nostri eventuali problemi economici, fin dove arriva la nostra consapevolezza del problema?
Molti si fermano a osservare la propria condizione e basta. Poi sanno “come va il mondo” e provano a darsi da fare per risolvere il problema, senza badare alle ragioni per cui le cose vanno in quel modo, né agli effetti che le loro scelte causeranno a loro stessi, in futuro, e a ogni altra persona cara o estranea che sia. Ogni soluzione scelta può anche risolvere il problema a sé stessi ma si riverbera sempre sull’intera comunità. E’ il cosiddetto effetto farfalla, noto in matematica e fisica e nello studio dei fenomeni.
Proprio attraverso l’effetto farfalla impariamo che la scelta attorno al più piccolo e insignificante problema, della più comune e umile persona, può comportare cambiamenti importanti per un’intera comunità, piuttosto che causare effetti sul lungo termine.
Ma si preferisce non impararlo. La vita è già abbastanza complicata; immaginiamo, ora, dover fare tutte quelle analisi prima di prendere la decisione che risolvesse un problema.
Sia come sia, diamine! L’importante è metterci la pezza, mica risolvere.
Questa è la semplificazione che fanno la maggior parte delle persone che scelgono l’incosapevolezza. E’ un discutere tra loro, appoggiarsi alle promesse e banalizzazioni altrui, scambiarsi soluzioni immediate e superficiali, dal minor costo possibile per sé (almeno si crede), e da costi per gli altri che sono ben lungi dall’essere considerati.
E accade anche un fatto curioso.
Le soluzioni spicciole degli inconsapevoli, e ancor più quelle puramente astratte, si preferiscono a quelle ragionate, analitiche, articolate, delle altre persone consapevoli. Diventano baluardi di sistemi vincenti, giusti, illuminazioni vere e proprie, che indicano a greggi di inconsapevoli di sentirsi fuori dal gregge principale, quello del pensiero unico. Quel pensiero che, in realtà, non è affatto unico ma formato da altri inconsapevoli come loro, individui con interessi specifici, e infine una sparuta minoranza di consapevoli.
L’inconsapevole è paradossalmente colui che crede di essere consapevole più di ogni altro. Si è trasformato in una bellissima farfalla o in un ripugnante insetto? Non se lo chiede. Perché non ha effettiva coscienza di tutto questo, e sono svariate le ragioni che lo conducono a tale condizione.
Ma capire in quale gregge si stia effettivamente pascolando non è poi così difficile. Basta interrogarsi su alcune cose. L’appartenenza a gruppi sociali è di primaria importanza per sentirsi al sicuro o appagati? Si hanno molte interazioni sociali e poco tempo per sé stessi? La vita piena d’impegni è meglio che avere momenti in cui non si sa cosa fare? Si ritiene poco, o per nulla, utile ritagliarsi del tempo quotidiano per riflettere? La solitudine spaventa?
Ogni risposta positiva a queste domande rappresenta un ostacolo alla via della consapevolezza. Inutile dire che aver risposto “si” a tutto costituirebbe una drammatica e probabilmente inespugnabile salita; viceversa un “no” deciso a tutte le domande spianerebbe la strada che porta a quell’assuefazione meravigliosa, irritante, inebriante, dispettosa, celestiale, e talvolta collerica, che è la consapevolezza. La virtù imprescindibile per migliorare sé stessi e contribuire al benessere globale della natura e dell’umanità.
Che sia spianata, o più o meno in salita, per aspirare al percorso sulla strada della consapevolezza si passa spesso per la solitudine. Si deve essere disposti a lasciare il gregge, se questo non è compatibile con la propria aspirazione di diventare persone consapevoli. La gente, anche quella a noi più cara, può arrivare a inquinare gravemente i pensieri, se ha scelto di rimanere “felicemente” inconsapevole.
Si può anche riuscire a convivere con persone inconsapevoli, purché siano solo superficiali e non appartenenti a quel paradosso di persone che invece credono di possedere tutte le verità, senza voler minimamente faticare e ragionare. Ma in genere è questo gruppo quello che costituisce lo zoccolo duro del gregge in cui ci si trova; anche a voler resistere saranno loro stessi ad allontanarsi dai tipi che diventano “strani” nel loro percorso di consapevolezza. In quel loro divenire farfalle!
Perché si diventa inevitabilmente strani agli occhi degli altri. Si può nascondere fino a un certo punto, ma i discorsi che nasceranno sveleranno una natura nuova e incomprensibile ai più.
E da questo punto in poi occorre prestare la massima attenzione. Perché è facile credere di aver fatto un passo avanti già nell’avvertire un certo isolamento; o addirittura nel sentirsi costantemente contraddetti nei discorsi, credendo che ciò confermi l’ampiezza della propria cognizione rispetto alla ristretta visione di chi critica.
Questi segnali, che sono tra i più importanti, sono però gli stessi che provocano la falsa idea di consapevolezza. E avviene in chi in realtà non ragiona; in chi crede di sapere non sapendo affatto; in chi ritiene ampia una cognizione invero molto limitata e attinta dal pensiero altrui. Quel pensiero esterno che perviene spesso da una persona influente che guida, condiziona e manipola i propri seguaci.
Il percorso della consapevolezza si fa in solitudine. Anche fosse virtuale, purché di forte e costante interazione nell’esplorare sé stessi e recuperare gli strumenti utili al raggiungimento dell’assetto mentale corretto: quello di chi si fa costantemente domande e non da per scontata alcuna risposta. Al netto dei santoni che fanno «Ohhhmmm…» da sera a mattina - per i quali nutro molto rispetto - la via della consapevolezza è solo una naturale e accessibile riflessione alla portata di tutti. Non è necessario alcun super potere né volontà ascetiche, ma sicuramente un intimo accostamento con le discipline filosofiche.
Cultura! Soprattutto. Avere voglia davvero di conoscere tutti gli argomenti che attraversano la propria quotidianità e attraggono il desiderio di consapevolezza su di essi. Determinarsi a invalidare ciò che si crede sugli argomenti, cercando visioni opposte alla propria e analizzandole in profondità e senza pregiudizi. Osservare come la soluzione a un problema possa davvero causare riverberi in tutta la società, e comprendere che questi non sono mai tutti positivi o tutti negativi. Dare valore, sincero, a ciascun effetto positivo e negativo, ed essere infine ragionevolmente certi di aver selezionato la scelta migliore per tutti.
Facendo un ragionamento simile, una volta mi son sentito obiettare: «Ma non si può sapere tutto!». Un’obiezione del genere nasce proprio dall’essere inconsapevoli che l’obiettivo della consapevolezza non potrebbe essere mai razionale se si pretendesse l'onniscienza, il sapere totale. L’obiettivo invece è quello di conoscere come funziona un certo sapere e come si arriva ad esso. Per esempio, non si può intendere che essere consapevoli su un argomento di salute significa dover prendere una laurea in medicina, ma sapere come la medicina funziona, come la scienza approccia al problema di salute specifico, a chi rivolgersi, di chi fidarsi, cosa credere e non credere.
Essere consapevoli del proprio problema economico non significa prendere una laurea in economia, ma sapere in che luogo si vive, cosa offre il mercato, perché offre quello, quali sistemi abbiamo per migliorare, cosa fanno e perché quelli che hanno problemi simili, quali maggiori problemi possono svilupparsi, e così via. L’approccio è sempre pratico.
Essere consapevoli sulla guerra e sulla pace non significa diventare esperti di geopolitica e sicurezza mondiale, ma limitarsi a ragionare su cause ed effetti delle cose che generano la guerra o portano la pace. E scegliere indubbiamente quelle che portano alla pace.
Essere consapevoli, significa dover spesso rinunciare a occuparsi di un problema che richiede conoscenze specifiche, ma saper selezionare chi se ne può occupare, chi è possibile delegare efficacemente nel sistema delle classi dirigenti del paese. Esattamente come farebbe un bravo recruiter nell’occuparsi del processo di selezione e assunzione del personale specializzato ai vari ruoli.
Lo scorso anno chiudevo le mie riflessioni ipotizzando quello che poteva essere “il libretto d’istruzioni dell’umanità”. Lo facevo dopo aver posto la domanda mesi prima, in un altro articolo. In quello scritto finale ragionavo: dalle domande provavo a pervenire a delle risposte. Se avrete piacere di rileggerlo, fatemi quanta eventuale consapevolezza avrete percepito su quel tema.
Ad ogni modo, quest’anno provo a chiuderlo completando proprio quel discorso, che qui finisce con l’augurare a tutti la metamorfosi verso la consapevolezza!
Buon anno.
Base foto: Paul Brennan da Pixabay
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