Ieri ci sono state le consuete prove tecniche della festa del lavoro. Si va un po’ a rilento, direi anche maluccio, e decisamente non siamo ancora pronti per la festa del lavoro ufficiale e definitiva.
Vediamo cosa abbiamo scoperto stavolta.
Il sinonimo di lavoro sarebbe occupazione. Infatti chi non lavora è definito disoccupato, o inoccupato se non ha mai lavorato, come il caso della maggior parte dei giovani studenti. Ma essendo studenti stanno studiando, e quindi sono occupati a fare qualcosa. E se sono occupati allora stanno lavorando anche loro.
Oppure “occupazione” non è sinonimo di lavoro, e i termini “disoccupato” e “inoccupato” non possono essere più riferiti al lavoro, ma a chi non fa nulla o non ha mai fatto nulla. I fannulloni, insomma.
Lo stesso ragionamento lo possiamo fare per chi si impegna ad accudire un parente. Lo possiamo chiamare occupato o lavoratore? Di sicuro lo chiameremo in entrambi i modi se stesse accudendo una persona estranea, in cambio di soldi. E il casalingo, o casalinga, che accudiscono la propria casa e la famiglia, come li chiamiamo? Potremmo continuare a fare decine di esempi.
E’ tutta gente impegnata a fare qualcosa, non è “fannullona”, quindi è certamente occupata. E, a rigore di ciò, non potrebbe essere definita disoccupata o inoccupata. La festa del lavoro dovrebbe essere anche la loro festa. Eppure… rimaniamo ancora alle prove tecniche.
Tutta la questione si riduce a una considerazione: il presupposto del lavoro, e quindi l’occupazione, sembra che sia il profitto economico. Se si guadagna, indipendentemente dal valore effettivo o potenziale per la società, allora si è occupati; se non si guadagna, non importa su cosa ci si sta impegnando e quale valore effettivo o potenziale possa avere per la società, si è contemporaneamente: disoccupati, fannulloni e occupabili.
Come mai è successo questo?
Facciamo anche qualche altra considerazione sul connubio lavoro/occupazione.
Come ormai sanno anche i sassi: la nostra è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e sappiamo che tale proclama è contenuto nel primo articolo della Costituzione. Ma nessuno poi si domanda perché è stata scelta tale parola e quale definizione di “lavoro” sia stata pensata. Se la andiamo a cercare su qualche dizionario non ne veniamo a capo, e soprattutto non si capirebbe perché il lavoro è tale solo se porta guadagno.
Secondo voi è possibile? L’art. 1 della Costituzione ci prende in giro? Ma perché non è stato scritto direttamente denaro? Guadagno? Lucro? Capitalismo?
Forse è meglio se la definizione di “lavoro” ce l’andiamo a cercare nella Costituzione stessa. Bisogna farne una lettura coordinata con gli altri articoli. Ora io ve ne potrei citare qualcun altro; ma considerate che questi sono solo indizi, mentre per le prove inossidabili di ciò che hanno voluto dire i padri costituzionalisti, usando quel termine “lavoro”, dobbiamo avere la pazienza di consultare anche qualche pagina dalla raccolta dei verbali redatti durante i lavori dell’Assemblea Costituente. Sarebbero migliaia di pagine, ma per fortuna fa sintesi e rimando uno dei più preziosi testi dell’epoca “La Costituzione, ill. con i lavori preparatori, Falzone-Palermo-Cosentino, Camera dei Deputati, 28/04/1949”, in breve: CostLav. Solo così avremo l’interpretazione autentica ed esente da “imbrogli” che svela l’apparente mistero dell’art. 1.
Durante i lavori attorno all’art. 1, nella seduta del 22 marzo 1947, l’on. Fabbri osservò che l’uso di quel termine “lavoro” poteva suscitare problemi interpretativi, proponendo di sostituire le parole “fondata sul lavoro” con le parole “fondata sulla giustizia sociale” (CostLav, pag. 21). Tuttavia passò il termine “lavoro”, poiché fu ritenuto inclusivo della stessa giustizia sociale e, durante il dibattito sull’art. 4, che informa della “necessità e utilità collettiva” del lavoro, Meuccio Ruini, presidente della Costituente, chiarì che «Ad evitare applicazioni unilaterali, si chiarisce che il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società. È lavoratore lo studioso ed il missionario; lo è l'imprenditore, in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione». (CostLav, pag. 28).
Inoltre, per evitare ogni forma di interpretazione classista, già durante il dibattito sull’art. 1, Fanfani - proponente della formula - chiuse così i verbali: «Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio (ndr, è il denaro è privilegio), sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui [...] Niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione dei talenti naturali» (CostLav, pag. 22).
[[ Dunque la Costituzione definisce lavoro anche chi è occupato a studiare, pensare, fare volontariato, sviluppare i propri talenti naturali, realizzarsi, e in tutti questi, e molti altri, modi contribuire così allo sviluppo della società, secondo i mezzi di cui ciascuno è naturalmente dotato. ]]
L’equazione lavoro=denaro non era pertanto nella volontà dei padri costituenti, i quali scelsero il termine “lavoro” non per indicare una banale equazione, in chiave esclusivamente economica, ma una moltitudine di relazioni di cui la parola lavoro costituisce sintesi: giustizia sociale, realizzazione personale, altruismo, partecipazione, contributo, sviluppo.
Pertanto, la persona si esprime nel lavoro in due modi diversi: come lavoratore economico (salariato, autonomo, imprenditore) o come lavoratore morale (talvolta connesso a quello economico). Lo voglio illustrare ancora meglio con un semplicissimo diagramma di Venn.
L’esempio più classico del lavoratore economico è il commerciante, colui che acquista a un certo prezzo e rivende con un ricarico da cui ricava il suo guadagno, e tutto si chiude lì. Ogni occupazione in cui la componente principale è meramente affaristica (rectius: speculativa) vive in questa dimensione; mentre tutto ciò che è arte e artigianato si colloca nella via di mezzo tra il lavoratore economico e il lavoratore morale retribuito. Ciascuno, nella propria arte, trova la sua collocazione, e a volte il disprezzo o la miopia di capitalizzarla lo pone nel capo opposto del lavoratore morale non retribuito.
Come lavoro morale retribuito possiamo invece pensare allo psicologo o all’insegnante, per fare degli esempi, ma solo se vengono assunti da qualcuno o investono in proprio come professionisti e “ce la fanno”. In questa categoria sono ovviamente comprese tutte le professioni intellettuali già indispensabili alla società odierna.
Infine, nell’universo del “non retribuito” esistono gli esempi già fatti prima, e tra tutti quello dei casalinghi. Ma anche molto lavoro intellettuale risulta non retribuito, se non è filtrato dal gradimento di una speculazione economica. Si pensi a quello che sto facendo adesso io, all’impegno notevole che travalica il mero tempo libero (dell’hobby!) per individuare e proporre riflessioni, nel divulgare letteratura e cultura, con argomenti, tempi, modi, linguaggio, non necessariamente graditi e capitalizzabili da un editore (lavoratore economico imprenditoriale) che magari non li condivide. E non può il lavoro morale sottoporsi allo scrutinio della speculazione economica di qualcun altro.
Volontari, badanti, maker (fabbricanti di idee e cose), studiosi, divulgatori, casalinghi, educatori, artisti, filosofi, e infinità di lavoratori morali sono preziosi per la Costituzione come ogni altro lavoratore economico. E’ auspicabile, e possibile, che in una società basata sulla speculazione economica si individui il modo in cui questi lavoratori debbano essere retribuiti. O si cambia la società dipendente dalla speculazione economica, o si integrano tutti i lavoratori in essa. La nostra bellissima e lungimirante Costituzione ha lasciato massima libertà in questo, ma è stata chiara nell’indicare che tutti sono lavoratori, e in maniera non discriminabile possono - e devono poter - fornire il loro contributo alla società stessa. Contributo effettivo o potenziale che sia, che va sempre riconosciuto.
Del contributo, ossia dell’utilità sociale di ciascun lavoro, ne potremmo poi parlare in un capitolo a parte (e in verità l’ho già fatto più volte in passato). Sappiamo che esistono quantità inverosimili di lavori economici totalmente inutili per la società (bisogni dell’uomo), ma semplicemente necessari a far girare soldi (oggi sostituibili anche dall’IA e dall’automazione). Viceversa una quantità altrettanto inverosimile di lavori morali vengono seppelliti perché impossibili da capitalizzare, sebbene possano fare un bene enorme alla salute psicofisica di chi li esegue o ne è beneficiario, con conseguente risparmio di spesa pubblica (specie in termini di cure sanitarie) e inneschi inestimabili nel progresso umanistico e scientifico.
E’ incredibile, se ci pensate, come questa nostra riflessione sulla festa di ieri ci riconduca anch’essa a quel sistema tanto bistrattato quanto privo di alternative valide. Quindi è anche quì il caso di dire: Sul RBU mi prende la scimmia!
Base foto: Varie da Pixabay
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