La competizione umana non dovrebbe operare come selezione naturale, tranne non contestualizzarla come risultato di una gara agonistica. Allora possiamo dire che la competizione determina una selezione: ci sarà una classifica e dei vincitori. E non c’è nulla di male.
Una selezione agonistica non è tuttavia “naturale”, nel senso darwiniano del termine. Si può dunque competere in un contesto ludico, sportivo, d’intrattenimento, e così via, ma non per la vita. Competere per la vita diventerebbe, appunto, selezione naturale.
Nel contesto della vita, abbiamo senz’altro selezione naturale nel mondo animale, dove una semplice zampa ferita può portare all’isolamento e alla morte. E l’abbiamo geneticamente laddove il maschio non è abbastanza forte e coraggioso per scalzare il rivale dal branco, o nel rito di accoppiamento. E l’abbiamo in generale se l’animale non ha sufficiente capacità di adattamento all’ambiente, essendo la selezione naturale soprattutto “adattamento”, ancor prima che forza e intelligenza.
Nel mondo animale possiamo quindi legare efficacemente, e senza timore di sbagliare, il concetto di competizione a quello di selezione naturale. L’animale compete per la sua vita.
L’uomo non è un animale in senso così stretto. Ha capacità di pensiero astratto e ha ritenuto che un arto ferito andasse curato; che i geni di ogni proprio simile fossero egualmente degni di riprodursi, senza dover dimostrare forza, coraggio, e lotte all’ultimo sangue; che non dovesse adattarsi a condizioni ambientali sconvenienti, ma cambiarle in armonia con la natura o trovare quelle più adatte alle proprie esigenze. Per ogni individuo della razza umana.
Ecco perché nel caso dell’uomo la competizione è limitata a quelle altre cose che dicevamo prima, e mai può essere competizione per la vita. Banalmente, da tutto ciò nasceva la proclamazione deila Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che l’uomo ha messo nero su bianco proprio di recente (nel 1948, ma pensate che l’homo spaiens si trova su questa navicella spaziale da 200 mila anni… se l’è presa comoda a distinguersi dagli animali).
Ma non ci siamo ancora. Nonostante l’uomo non debba più competere per la vita, questi altissimi valori etici parrebbero vivere solo sulla carta, come buoni propositi e poco di più.
Non basta aver pensato a curare chi si ammala, ad assistere chi è diversamente abile, o del tutto inabile a competere, e nemmeno a sostenere chi è temporaneamente inabile nel fisico o nella mente. Non basta perché ogni sostegno è stato concepito principalmente a parole, concedendo davvero poco a chi deve essere soccorso dai suoi simili. Spronando chi inciampa a risollevarsi subito e competere! Altrimenti per quella persona potrebbe essere la fine. Proprio come un animale.
Pensate, ad esempio, a come il nostro sistema sanitario pubblico offra sempre meno assistenza e tempestività, obbligando chi deve curarsi a dover pagare ricorrendo ai servizi sanitari privati. E anche l’istruzione diventa un settore sempre meno alla portata di chi non ha un tenore di vita adeguato.
Bisogna dunque competere per conquistare quel tenore di vita e potersi curare e istruirsi bene. E senza cure è istruzione adeguati non si lavora, o si lavora male, si viene sfruttati, si finisce nelle mani della delinquenza, si vive male, ci si ammala, si muore. L’aspettativa di vita di chi vive al limite, solo per sfamarsi, è ben più bassa di chi nella società sta già sopra di un solo gradino. Perché come sappiamo la nostra è una società fatta di gradini; più si sale in alto, maggiori sono le possibilità di vivere meglio e più a lungo.
Si compete per salire questi gradini.
L’uomo ha inventato un sistema che dovrebbe assicurare a tutti la possibilità di salire tali gradini. Si chiama capitalismo. Ed è libertà di possedere e tramandare ai propri eredi ciò che si possiede. Si può possedere senza limiti, anche tutto il mondo. Se così avvenisse un giorno, beh, ne rimarrebbe solo uno in cima alla scala, e tutti gli altri scenderebbero stabilmente ai primi gradini. Per ora c’è ancora un certo via vai su questa scala, chi sale e chi scende, perché si può ancora competere.
Questo via vai sembra un grosso problema, insomma. Abbiamo visto che chi scende (o non sale) se la passa malissimo e poi soccombe anche. Allora ecco che il via vai diventa una competizione per la vita.
Epperò un “via vai” per modo di dire; vale fino a un certo punto della scala. Tanto per dire: dai primi dieci gradini si sale e si scende freneticamente, ma non sotto i primi tre. Chi ha avuto la sfortuna di scendere fino a lì, o esserci nato, avrà possibilità infinitesimali di salire oltre (il cd. ascensore sociale, guastatosi ormai dappertutto). Sono i poveri, più o meno assoluti, a cui perfino la competizione è preclusa. L’inverso si verifica per chi è arrivato all’undicesimo gradino, dal quale diventa più difficile scendere ma molto più semplice salire ancora. Ovviamente finché ci sarà spazio sui pianerottoli superiori (qualcosa da possedere che non possegga già qualcun altro).
Quindi la libertà smisurata del possesso ci ha portato a non capire come poter tener fede alle questioni etiche che avevamo perfino scritto nei Diritti dell’Uomo. La velleità di potersi distinguere dagli animali è praticamente svanita.
Siamo animali puri. Competiamo per la vita!
Nessuno può smentire questo ragionamento, se non provando che ci sarebbe da mangiare per tutti, cure per tutti, istruzione per tutti. E purtroppo non è così, e lo sappiamo. Se non si compete per ottenere il cibo, le cure e l’istruzione, queste non si avranno. E perlomeno non si avranno nel minimo indispensabile e dignitoso che non dovrebbe negarsi ad alcun essere umano. Più il gradino è basso, maggiori (e talvolta indicibili) saranno i sacrifici da fare per assicurarsi una frazione di quello stesso minimo.
Ad alcuni esseri umani in quei gradini più bassi, la questione non piace. Diventano facile preda di fanatismi e/o prorompente impeto di riscatto, ed ecco così infuocare ogni conflitto nel mondo, al netto delle questioni di equilibrio geopolitico (nemmeno loro esenti da questa riflessione).
Ad alcuni altri essere umani ciò non importa, anzi sono assolutamente convinti che le cose debbano andare proprio così. Sono, ad esempio, i cosiddetti anarcocapitalisti, l’estrema destra ultraliberale. Tra costoro si è ultimamente distinto un capo di stato eletto in Argentina: Javier Milei. Egli si dichiara tale, ma qualcuno mi ha detto che in fondo è “un bravo ragazzo” (saluto il mio fraterno amico Raul).
Simile linea di pensiero, benché più moderata - nettamente distante dall’anarcocapitalismo - la si può scorgere nella sinistra ultraliberista, ma anche di quella liberista che non si pone il problema del liberismo sfrenato. Ciò per dire che non è un pensiero propriamente asimmetrico. La differenza tra un’ideologia liberista di destra e una liberista di sinistra sta nel fatto che quest’ultima vuole apparire talmente moderna (sappiamo che la sinistra è progressista…) da tentare di abbracciare qualunque modello. E come avviene spesso nel pensiero della sinistra moderna: si vuol talmente essere inclusivi che si finisce per l'essere inconsistenti.
Non è un pensiero che si è formato oggi. Infatti ho scritto che “esiste ancora”. Vi chiederete, allora, come sia possibile che esista contemporaneamente quella Carta dei Diritti Umani, più volte citata, nata da quelle riflessioni etiche plurimillenarie, alla fine messe nero su bianco anche in tutte le costituzioni dei paesi cosiddetti “avanzati”, i paesi civili dove si può sognare e vivere in pace e prosperità (si dice).
Ve lo state chiedendo?
La risposta è che c’è stato un momento di riflessione profonda, anni fa. Dopo due guerre mondiali ravvicinate e terribili si è detto e scritto tutto ciò che “di bello” si poteva. E questo “di bello” non convince più alcuni contemporanei che, come in passato, non vedono le disuguaglianze umane come una cosa necessariamente cattiva. E vedono la competizione come il tutto, essenziale alla conquista di uno spazio privilegiato e migliore di vita. Alla vita stessa, se è necessario. Ridursi ad animali, per costoro, è cosa del tutto normale.
In alcuni casi (e in tutti quelli ideologicamente a destra) gli ultraliberisti sono anche osservanti di qualche religione; quella cattolica, in particolare. Questo completa uno scenario alquanto paradossale, laddove si pensi che i precetti del cattolicesimo sono agli antipodi perfino del liberismo più classico. Un pensiero estremamente incoerente, insomma.
Quindi alla fine cosa siamo: animali o persone? Dovremmo finalmente chiedercelo. E se rispondiamo che le persone non sono animali, allora è il caso di iniziare una nuova, decisa, e civile battaglia per ricordare dove eravamo rimasti: ai Diritti Umani! E bisogna ricordarlo con forza e determinazione a chi oggi se l’è dimenticato. A maggior ragione - e con più forza - se chi l’ha dimenticato sia anche stato delegato a governare le nostre vite, ovunque nel mondo.
E a proposito di battaglie, chiuderei con alcuni dei tanti pensieri/interrogativi di coscienza civile che ci ha lasciato Giorgio Gaber.
“Perché spargete così male la rabbia che vi consuma?”
“Perché vi rassegnate a questa vita mediocre, senza l’ombra di un desiderio, di uno slancio, di una proposta qualsiasi?”
“È la rabbia che non esiste più, sostituita dalla rassegnazione, da una pericolosa apatia. Ho la sensazione che la gente agisca sempre meno e parli sempre di più. Su qualunque questioncina ci si scontra, si discute, ma poi, quando c’è da spostare una sedia, non la sposta nessuno!”
“Al posto dell’indignazione e della rabbia, ci è stata instillata l’ipocrisia della bontà, di una solidarietà fatta su misura per mettere a posto le coscienze”
-Da: “Quando parla Gaber” di Guido Harari (Chiarelettere, 2011)
Smettiamola di starcene con le mani in mano!
Base foto: “Duello rusticano”, di Francisco Goya (Olio su muro trasportato su tela, 1820-1821), Museo del Prado, Madrid
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