Una frase consueta che si usa spesso è «Noi abbiamo la nostra cultura», con riferimento alla propria identità di popolo, alle sue usanze, costumi, consuetudini, credenze e abitudini. Dicendo “abbiamo la nostra cultura”, e non “abbiamo la cultura”, si sta implicitamente accettando l’esistenza di altri popoli e culture diverse.
Nella scelta della frase, dunque, esprimiamo già con chiarezza il relativismo culturale, e legittimiamo l’esistenza di pensieri e costumi diversi.
Tuttavia - e per fortuna - non ci si ferma ad accettare l’esistenza di culture diverse, ma ci poniamo anche delle domande. Per esempio, gli italiani potrebbero chiedersi: «Siamo normali noi italiani o gli altri popoli?». Però, così, sarebbe una domanda che tende a una risposta assoluta, perché cerca di determinare una cultura perfetta in senso generale.
Notiamo, allora, che servirebbe qualche misura tra l’accettare il relativismo e poterne al contempo criticare qualche aspetto: che sia un'usanza in particolare o uno stile di vita più o meno accettabile. Questo naturalmente non significa stabilire la miglior cultura del mondo, ma solo verificarne qualche ingrediente, e solo se strettamente necessario. Per esempio quando culture diverse entrano in contatto diretto. Ma accade più frequentemente all’interno di una società omogenea - sebbene non lo sia mai totalmente - la quale sovente si divide producendo sfumature di vedute e sistemi di vita, dove i costumi tendono a mutare creando nuovi gruppi.
Questa sembra un’esauriente premessa per far partire il nostro ragionamento, ma per essere onesti dobbiamo riconoscere che manca ancora qualcosa.
Quando siamo chiamati a fare le valutazioni strettamente necessarie di cui parliamo, si pone in scena un atteggiamento di chiusura estremo: il relativismo passa dall’essere criticabile al divenire inaccettabile. La difesa delle proprie radici e usanze è talmente intransigente che talvolta si risulta ipocriti col disimpegno dialettico del “vivi e lascia vivere”. E’ già un brutto luogo comune; ma non è neanche sincero. Non si vorrebbe affatto che altri seguissero stili di vita differenti dal proprio, perché nel proprio ci si sente al sicuro come nel grembo materno: mai nati in un mondo ostile che pretenderebbe di interrogarsi sempre e cambiare quando occorre. A denti stretti, alla fine, si ammette che l’importante è non disturbarsi a vicenda.
Ma proprio per non disturbarsi a vicenda servono regole di critica e valutazione condivise.
Da cosa far discendere tali regole?
Penso convintamente che debbano discendere da leggi naturali e presupposti scientifici, incensurabili in un determinato periodo temporale (perché logicamente la scienza evolve nei tempi). Questi sarebbero filtri oggettivi e super partes, universalmente accettabili da tutte le culture. Potremmo anche definirli filtri derivati da un giusnaturalismo sistemico ed evoluto: dall’epoca presocratica a Tommaso d’Aquino, giungendo a Kant e al moderno progresso scientifico, il quale vive nei suoi metodi attraverso il rasoio di Occam e il principio di falsificazione popperiano (sono tutti processi del pensiero razionale depurati dalle questioni morali degli autori, di cui ho spesso parlato e che sicuramente riprenderemo in futuro).
Per fare qualche esempio, il giusnaturalismo tipico è sempre d’ispirazione nella redazione di trattati internazionali e componimento di dispute tra Stati, e ha originato documenti importanti come la proclamazione universale dei diritti umani.
Non potrebbero, invece, invocarsi filtri abnormi o soggettivi, come le premesse di stampo morale o religioso, o tutte quelle forme di contestazione ove si scorgono timori congetturali come la contaminazione o perdita della propria identità culturale. Se ci si sentisse minacciati in tal senso, sarebbe comunque necessario argomentare la gravità, precisione e concordanza, della presunta minaccia, evitando di basarsi su forme dialettiche astratte o assiomatiche che non avrebbero pregio oggettivo. Si dovrebbe inoltre spiegare l’eventuale male che deriverebbe dalla supposta contaminazione o scomparsa della propria cultura, perché non si deve dimenticare che nulla può essere considerato eterno o immutabile; perciò è necessario determinare anche la razionalità nel voler far vivere il più a lungo possibile i propri costumi rispetto ad altri, ovvero non volerli consegnare alla storia per un ulteriore e sempre possibile esame a posteriori.
Più avanti ci attarderemo parecchio su quest’aspetto della “minaccia identitaria”, ma per intanto iniziamo a identificare qualche esempio concreto (sarà piuttosto forte, vi avverto).
In uno dei racconti storici di Erodoto, nel libro III de “Le Storie”, detto anche libro della musa Talia, si narrano le conquiste e follie di Cambise, l’attacco di Sparta, e altre gesta. Si legge anche di Dario, re di Persia, che durante il suo regno condusse un esperimento sociale con Greci e Callati. Chiese a entrambi i popoli se ci fosse un prezzo per cambiare le loro usanze funerarie: i primi usavano cremare i loro defunti, mentre i secondi praticavano l’endocannibalismo. La risposta fu negativa in entrambi i casi: non esisteva prezzo, e nessuno era quindi disposto a rinunciare alle proprie pratiche. Erodoto confermava così un antico verso di Pindaro: «La tradizione è regina del mondo».
Non vennero risparmiate critiche. Agli occhi dei Greci risultava ripugnante il cannibalismo verso i defunti, ma non erano però in grado di argomentare oggettivamente le ragioni del loro disgusto. I 2.500 anni di scienza che ci portano ai giorni nostri rendono però possibile una pronuncia assai precisa sulla sconveniente pratica dei Callati. Tale usanza si rivela infatti pericolosa per la salute e inutile spreco di organi che potrebbero salvare altre vite 1. Minacciare la salute contravviene all’etica, la quale preserva la vita in ogni sua forma e declinazione, di continuazione, evoluzione e prosperità. Allora ecco che si presenta una legge naturale contraria a tale usanza.
Questo era un esempio semplice per applicare i nostri filtri sulla legittimità di una qualunque pratica identitaria. Quindi le leggi naturali, ossia i principi etici, coadiuvati dallo stato dell’arte del progresso scientifico, dovrebbero essere sempre il nostro faro. Perlomeno ogni qualvolta sia davvero indispensabile valutare taluni aspetti di una cultura (un’essenzialità che deve prescindere dal mero dileggio o dalla critica frugale). Spero che ciò vi risulti ragionevole quanto lo risulta a me stesso; ma in tutta onestà devo dire che tali conclusioni sono difficili da intercettare nella copiosa letteratura scientifica, che in tutti questi secoli si è sviluppata attorno al concetto di relativismo culturale. La sociologia, l’antropologia e la filosofia, hanno avuto un ruolo centrale in questo dibattito.
Va però rimarcato l’aspetto temporale: non dobbiamo ritenere immutabile lo scenario di valutazione. Ad essere immutabili sono solo le leggi naturali, a meno che non cambi la natura stessa delle cose e della vita, ma la loro violazione dipende dai tempi in cui tale valutazione viene effettuata. Per esempio, se esistessero sistemi in grado di immunizzare chi praticasse il costume dei Callati (alcune tribù odierne lo fanno ancora), e al contempo non servissero gli organi per salvare eventuali altre vite, allora non si produrrebbe più alcuna violazione etica, e la sconcertante pratica tornerebbe a essere legittima.
Al di sotto dei nostri filtri di valutazione vivono tuttavia le leggi culturali dell’uomo. Non possiamo, sic et simpliciter, in forza di una valutazione universalmente accettabile, invalidare automaticamente le norme di legge che discendono dal contratto sociale, cioè tra la cultura identitaria del popolo e i rappresentanti che lo governano. E qui i nostri Callati tornerebbero ad avere qualche problema.
Supponiamo che la loro tribù giungesse in Italia attraverso una macchina del tempo. Essi si scontrerebbero subito con le nostre norme culturali che tramite l’art. 411 c.p. vietano quel costume. Per poterlo praticare non avrebbero altra scelta se non quella di intervenire politicamente per chiedere una modifica a tale norma. Dovrebbero prospettare la natura legittima di tale libertà identitaria, e oltre a superare gli ostacoli etico-scientifici (probabilmente intrecciati con altre norme culturali, anch’esse da superare) dovrebbero assicurare una condotta asettica verso le differenti usanze della cultura ospitante, che nel proprio territorio è comunque sovrana. Ma potrebbero perfino, con utopistica visione, volere e potere dimostrare la superiorità etica della loro usanza. Non già un permesso per praticarla, e nemmeno l’eventuale e reale minaccia di interferire con la cultura ospitante, ma addirittura la pretesa di sostituire l’usanza locale.
Inaccettabile? No. Non è inaccettabile se ragioniamo attorno ai nostri filtri etico-scientifici, perché in tal modo si può giungere alla migliore verità possibile. E questo dovrebbe essere un bene per tutti. Sarebbe invece inaccettabile rifiutarsi di ascoltare; ma più che altro si rivelerebbe l’ipocrisia dell’ammettere un relativismo culturale a quale però non si intende concedere nulla a priori. Se fosse davvero così, allora sarebbe più corretto tagliare le relazioni con qualunque altra cultura estranea, o emergente in seno alla propria (e quest’ultima cosa è più difficile, se non impossibile).
Il problema della “minaccia identitaria” è che spesso si poggia proprio su questioni irrazionali, difficili, se non impossibili, da esaminare. Perciò va richiesto un netto rigore nel determinare che la concessione di uno stile di vita diverso possa effettivamente annullare il proprio o nuocere irrimediabilmente alle proprie radici. E come abbiamo detto prima non si può pretendere che nulla muti e che la perfezione sia stata raggiunta ora e per sempre. Se non si ponesse un tale rigore allora questo ulteriore filtro si userebbe sempre come scusa per non permettere mai il cambiamento di qualcosa. Diverrebbe, addirittura, una questione più importante dell’esame giusnaturalista etico-scientifico.
A parere di chi scrive, una soluzione accettabile anche sotto questo profilo, se vogliamo essere davvero ragionevoli fino in fondo, sarebbe quella di utilizzare una premessa altrettanto efficace e accettabile da qualunque contendente: il concetto primitivo del neminem laedere, cioè non offendere. Se la pretesa minaccia origina da quell’irrazionale posizione conservativa, offenderebbe certamente chi vuole esprimere la propria diversa libertà, se già accertata come legittima.
Queste riflessioni ci portano a individuare una nuova condizione per concepire il relativismo culturale, visto così in una chiave moderna, aperta ed equilibrata. Infatti, la maggior critica che si poteva muovere al vecchio relativismo era proprio dovuta alla sua completa chiusura e stagnazione, che paradossalmente lo poneva in senso assoluto: ogni costume sarebbe legittimo a prescindere, non può essere sindacato e tantomeno vietato da nessuna legge o cultura diversa. E’ chiaro che una prospettiva del genere annichilirebbe la possibilità di progresso e di vera integrazione tollerante tra popoli e gruppi derivati. Il termine “normalità” perderebbe talmente di significato che non avrebbe più senso usarlo nemmeno all’interno di uno stesso gruppo sociale, atteso che è principalmente da esso che derivano le sfumature culturali di pensiero e sistema di vita. Tra i più fervidi critici di questa visione abbiamo avuto il filosofo tedesco Karl Popper. Ma in passato ce ne sono stati parecchi altri.
Il relativismo culturale deve quindi arrestarsi sempre, ancor più che cedere, innanzi a quei filtri che abbiamo individuato. Ma non dobbiamo pretendere di andare oltre. Non dobbiamo trovare altri filtri che nascono unicamente dalla paura della diversità, attribuendo ai propri sistemi un valore assoluto.
Tutto ciò è più che sufficiente per bloccare l’usanza dei Callati, per quanto ne sappiamo oggi. Ma il nostro problema non era certo questo; quindi aggiungiamo che i nostri filtri etico-scientifici funzionano anche se dovessimo valutare molti dei problemi e dibattiti contemporanei. Per esempio la legittimità di pratiche che prevedono la sottomissione della donna, da parte di alcuni popoli che giungono presso di noi. Vedremo che non è possibile, perché contravverrebbe a un altro principio etico oggi chiaro e sacro: l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani indipendentemente dal loro genere.
Esistono numerosi altri casi altrettanto risolvibili, anche se meno cristallini dei precedenti. Non molto tempo fa, ad esempio, il governo in carica aveva riacceso il dibattito sull’aborto ponendo la questione - indubbiamente etica - della sacralità della vita. Ma esaminando più a fondo il problema, come ho cercato di fare in “Gocce di vita”, emerge a mio parere l’impossibilità di imporre per legge il divieto di abortire (modificando quindi la legge attuale). In egual misura, ragionando sulla maternità surrogata in “Il diritto di essere genitore”, ci siamo forse accorti che si tratta di una pratica che solleva questioni di tangibile svantaggio per chi verrebbe concepito in tal modo.
Tutti esempi di casi più controversi e opachi, all’interno dei quali si possono comunque operare gli stessi ragionamenti che abbiamo fin qui effettuato. Non è un dibattito che può comunque esaurirsi, ma essere perlomeno confinato allo stato dell’arte della conoscenza odierna.
Avrei piacere di chiudere il tema spendendo anche qualche parola sulle vicende di quelle minoranze che di recente sono state bersaglio del “best seller” del generale nostrano Roberto Vannacci. Genti, che egli avrebbe definito lamentose, talvolta aggressive, che reclamerebbero una normalità - a suo dire - eccessiva o inopportuna.
Per la verità in quel libro non ho apprezzato alcuna tesi etico-scientifica, per cui penso siano solo questioni di soggettiva frustrazione all’attenzione di alcune parti politiche verso le minoranze prese di mira. Si può però percepire il sentirsi anche minacciati da tali minoranze e dal loro modo diverso di voler vivere, quindi da costumi anche diversi. E torniamo quindi a quel filtro di “minaccia identitaria” sul quale mi sono parecchio attardato sopra. Stando così le cose, è sufficiente ricordare agli estimatori del testo in questione (e anche al generale che l’ha scritto, se accetta il consiglio) che quel nostro concetto primitivo del neminem laedere può essere sicuramente nostro amico!
Ogni volta che si giudica una minoranza avvertendola immediatamente come minaccia, occorre anzitutto interrogarsi per bene su cosa potrebbe esattamente compromettere all’eventuale maggioranza, e dunque in che modo potrebbe offenderne i diversi costumi e stili di vita. Se stiamo semplicemente difendendo la mera conservazione di questi ultimi, e non per poterli continuare a esercitare ma per assicurarci che siano gli unici esercitabili, allora a mio parere compiamo tutti quegli errori precedentemente narrati.
Abbiamo la fortuna di possedere un linguaggio molto affinato, articolato e adatto, per dimostrare qualunque esagerazione e minaccia etica reale. Usiamo tale linguaggio per parlare ai cervelli, e non alle pance.
Concludo consigliando una lettura un po’ impegnativa ma molto stimolante, che vedete nella reclame qui sopra (libro disponibile su Amazon, ma anche altrove). Apparentemente sconnesso dal tema. Ma se osservate il quadro nell’immagine di copertina potrebbe risultare scollegato anche lui: lo avrete certamente inquadrato nell’opera “Relatività” di Escher, e posso assicurarvi che ciò di cui abbiamo fin qui parlato può essere riassunto in quella litografia. Così come in “GEB”, che è appunto la lettura che consiglio sopra. “Godel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante”, un testo unico che deve essere espugnato per far schiudere le porte del ragionamento intuitivo razionale, permettendo di accedere al pensiero laterale (tipicamente femminile). Molti concetti affrontati in quest’articolo, e quasi ovunque nei miei scritti, nascono dalla natura che descrive molto bene Hofstadter, autore di GEB.
E’ un po’ impegnativo, lo ripeto, ma ne vale la pena. Non va sottovalutato né abbandonato al primo tentativo, e nemmeno al secondo.
Base foto: Litografia "Relatività", di M. C. Escher (1953), presso musei di Washington e Gerusalemme (repliche)
-
In verità anche la cremazione, praticata dei greci e ovunque accettata oggi nel mondo, non supererebbe l’esame dei nostri filtri etico-scientifici. Infatti, non è di alcuna utilità bruciare un corpo (ma anche conservarlo integro in ogni sua parte), se può essere utile a salvare altre vite attraverso l’espianto di organi utilizzabili. Queste pratiche crematorie e conservatorie, o “consumatorie” nel caso dei Callati, originano tutte da morali soggettive o religiose, che secondo i nostri ragionamenti non potrebbero godere di “protezione culturale” quando ciò provoca sofferenza. Come la sofferenza indicibile di un bambino e dei suoi cari che non ricevono un trapianto d’organo perché una certa “morale” decide di disporre di un cadavere affidandolo alla cremazione o alla sua irrazionale conservazione. ↩
Gli algoritmi di ricerca su internet, e quelli preferenziali dei social, non premiano cultura, pluralismo e contenuti utili e interessanti, ma fanno prevalere le banalità, le popolarità, l'intrattenimento, e la supremazia di informazioni mainstream promosse anche da incenti investimenti pubblicitari.
Questo progetto sarebbe invisibile senza costanti investimenti di autopromozione.
CONDIVIDENDO l'articolo e segnalando il sito e i profili social, contribuirai ancora meglio.